34 – Fonte dell’Acquerella

In un paese aggrappato alle pendici della montagna, in mezzo al bosco, c’è una fonte ricca d’acqua freschissima. I paesani la chiamano l’Acquarella. Oggi è restaurata, risanata, abbellita. La conservano bene, come un bel ricordo ereditato dai tempi passati.

Nei tempi passati forniva acqua a tante famiglie. Le massaie vi si ritrovavano per lavare i panni o per riempire due brocche da portare a casa. Ma era anche il punto di ritrovo per scambiare quattro chiacchiere e qualche pettegolezzo. Gli uomini poi la frequentavano per abbeverare le bestie e per incontrare le donne al pozzo.

Oggi la Fonte dell’Acquarella seguita a versare acqua in abbondanza nel suo catino di pietra, da cui, sempre limpida, viene smistata all’abbeveratoio ed al lavatoio. Nessuno se ne serve, sicché l’acqua quasi incontaminata sborda dal sopravanzo, che scarica nel fosso. Da lì scende a lambire qualche orto più in basso. Se non avesse questo uso, quel bendiddio scorrerebbe nell’indifferenza e senza utilità apparente.

È lungo questo tragitto, però, che continua la vita e la vivacità di un tempo. Non sono gli uomini a sfruttare quella ricchezza, ma gli animali. Sì, perché gli animali ricorrono all’acqua per abbeverarsi, soprattutto lungo il fosso.

Tutti gli animali del bosco confinante, hanno necessità di dissetarsi, molti di sfamarsi. Di notte ognuno di questi, quando si avvicina alla fonte, ha un progetto in testa: chi per bere, chi conta sulla sete degli amici per sfamarsi. Insomma è durante la notte che in quel fosso si combatte una guerra mai dichiarata, ma infinita: la lotta per la sopravvivenza. Al termine della nottata tutti gli animali devono aver soddisfatto le loro esigenze. Le vittime non contano, ma pure loro contribuiscono all’economia generale della vita.

Qualche tempo fa, in una notte di mezza luna, tutti i soliti attori erano presenti lungo i bordi del fosso. C’erano due Caprioli, un Cinghiale con i suoi figli piccoli, pezzati di grigio, poi la Volpe e non lontano il Leprotto. Il Rospo, invece, molto educatamente in disparte, forse timido, forse consapevole di schifare qualcuno per il suo brutto aspetto, aspettava il suo turno. Vicino c’era un Tasso, una Donnola e, sollevato su un ramo, uno Scoiattolo diffidente, in attesa di spazio sicuro per avvicinarsi all’acqua. In lontananza un Chiù dal suo albero, occupato in esclusiva, ripeteva assillante, ad intervalli ritmati, un avviso per rimanere sveglio fino a notte inoltrata: chiù, chiù, chiù…

Ultimo il Riccio, tranquillo pure lui. Di domestico in questa comunità c’era solo il Gatto, dichiaratamente a caccia del topo, ma poi chissà?

All’improvviso si unirono alla comunità tre uccelli notturni: il Gufo, la Civetta, il Barbagianni, che, senza preamboli, piombò proditoriamente e silenzioso sullo Scoiattolo.

Fortunatamente – per lo Scoiattolo – l’agguato andò a vuoto, perché la preda, per lo spostamento d’aria procurato dalle ali del Barbagianni, cadde dal debole appoggio.

Nel vano parapiglia tutti gli animali, in attesa che ognuno di loro facesse la prima mossa verso la preda nei loro pensieri, s’allertarono.

La guerra era stata dichiarata: la Volpe repentina puntò la Lepre; la Donnola, che aveva perso di vista lo Scoiattolo, partì in direzione del Chiù; il Cinghiale, prima di rimanere senza bersaglio e visto che in famiglia erano diversi a dividere, mirò deciso al Tasso; la Biscia silenziosa e coperta dalla vegetazione scattò il colpo al Rospo. L’impresa più ardua, però, era quella del Gufo, perché doveva artigliare il Riccio. Nel trambusto, nel parapiglia, nello sfrascare si alzò una confusione generale per cui i due Caprioli commentarono delusi: “Anche stasera c’è casino qui. Ci fosse mai una volta che si possa bere in pace!…” e, poggiando a tutta forza sui piedi di dietro, schizzarono via.

Ma la guerra è guerra. Urli, strilli, grugniti, colpi, fischi, richiami, pianti acuti, svolazzi, zaffi di pelo per aria, penne al vento furono i risultati immediati. Pochi istanti di lotta e lamenti, poi, quasi per incanto, tornò il silenzio rotto qua e là ad intervalli da un colpo d’ali, da un grugnito, da un richiamo, da un lagno. Comunque i contendenti erano ancora tutti sul campo, sani fra sì e no; salvi, sì.

Soltanto la Biscia in silenzio aveva attaccato il suo nemico. Stava portando a compimento la sua lotta con il Rospo, che altrettanto zitto subiva la sentenza di morte. Il serpe l’aveva addentato per un piede ed aveva iniziato ad ingurgitarselo. L’anfibio, che era un vecchio stratega e che s’intendeva di guerre, preparò le contromisure.

La Biscia, che non aveva previsto tutto, succhiò la zampa, succhiò la coscia, ma quando fu al grosso, trovò la difesa del Rospo. Questi s’era gonfiato al limite della resistenza della pelle. Moltiplicando il suo volume, era divenuto enorme da impedire l’accesso alla bocca nemica, pure al massimo dell’elasticità. Il serpe maledisse, imprecò, ma dovette desistere e risputò quanto aveva già in gola.

La Civetta finora se n’era stata in disparte a riflettere sulle strategie altrui. Resasi conto della situazione di sostanziale pareggio nella battaglia appena consumata, alzò la voce per attirare attenzione: “Ascoltate tutti, fratelli animali. Vi devo invitare…”.

Più di uno, tuttora incavolato di come erano andate le cose poc’anzi, s’infastidì dalla sgradevole intromissione: “Mo’ che vole questa?! C’è da sentirla, sì! Ogni volta che apre becco porta male. Magari ci vuole insegnare qualcosa proprio lei…”.

“Vi volevo invitare, fratelli animali, ad un attimo di riflessione. Nella guerra appena combattuta, come vedete, non ci sono stati né vincitori, né vinti. Bene così!”

“Come, ‘bene’. Qui c’è qualcuno che è rimasto a stomaco vuoto… Che ne sai tu? Che stai a dire?!”, ribatté la Donnola.

“Insomma. Bene così. Noi dobbiamo vivere tutti in pace. Tutti abbiamo diritto a vivere. Nessuno ha diritto ad uccidere il fratello, il cugino… per un bisogno egoistico”.

“E tu di che campi?”, la interruppe, pronta, la Volpe.

“Esistono possibilità alternative che ogni ‘nemico’ potrebbe procurare al rivale. Per esempio, la Lepre consoli la Volpe fornendo uova e vegetali, il Tasso fornisca miele al Cinghiale, e così di seguito…”.

“Io non sono d’accordo”, interruppe il Tasso. “Dando ascolto a questa idea, metà animali dovrebbero lavorare per sé e per l’altra metà sfaccendata, ti pare giusto? Dividiamo più seriamente il territorio, mettendo segnali e confini precisi ed ognuno rimanga nel suo, campando di quel che trova lì”.

“No. Proposta irrealizzabile”, commentò il Riccio. “Gli uccelli chi li para? Come percepiscono i tuoi confini?…”.

“Sentite” concluse la Civetta. “Io ci ho provato, ma, se a voi sta bene così, seguitate come oggi, che l’animale più grosso mangia il più piccolo, il più scaltro campa ed il tardo soccombe. Io volevo cambiare…”.

“Prendiamoci una pausa di riflessione”, propose il Gufo, “poi tra sette notti ci ritroveremo qui a firmare l’armistizio o con un’idea più attuabile e precisa…”.

Per sette notti nessuno si fece più vedere nelle vicinanze della Fonte. Alla settima notte qualcuno si avvicinò alla larga, quatto quatto, senza farsi vedere ed senza essere visto per spiare cosa facevano gli altri. Fu così che all’ottava i soliti si presentarono alla Fonte sparpagliati e zitti.

La verità era che nessuno aveva coraggio di cambiar vita e modificare la sua natura, né aveva il coraggio di confessarlo.

Nelle notti di seguito tutti gli animali ripresero i loro ritmi, le loro abitudini, facendo finta che nulla fosse successo.

34 – Fonte dell’Acquerella