38 – LA RIVOLTA DEGLI ANIMALI

Tanti animali erano allo sconforto. Erano caduti alla rinfusa nelle pagine del nostro autore, incolpevoli ed inconsapevoli. Questi, secondo l’ispirazione, senza soppesare la sensibilità delle bestiole, s’era messo a scrivere di loro e dei loro fatti così come gli veniva. Una vicenda dopo l’altra, una storia dopo l’altra, una favola dopo l’altra. Mai aveva pensato di offendere qualcuno, mai avrebbe pensato di intaccare la sensibilità di qualcuno scrivendo, ascoltando soltanto il suo io. 

Male! Dopo l’ultimo episodio, dopo l’ultima storia qualcuno degli animali coinvolti venne a conoscenza del progetto dell’autore, del volume raccolto da costui, cui avevano dato fiducia e confidenza, senza consenso. 

Gli animali cominciarono a consultarsi tra di loro, a parlarne sempre più apertamente, a lamentarsi, fino che qualcuno pensò di interpellare un legale.

Ah, questi fu chiaro. Era il pappagallo: ”No, signori miei! Se qualcuno usa la vostra immagine, vi consulta, poi usa per affari suoi i vostri pensieri a vostra insaputa, commette reato di appropriazione e sfruttamento indebito di certi vostri diritti personali, inalienabili: diritto all’immagine, diritto alla esclusiva del pensiero. Diritti che non si sanano e non si espropriano nemmeno pagando il disturbo. Dunque, se qualcuno lo ha fatto, ha commesso un abuso. Lo sapevate, signori miei?”

“No”, ripose chi si trovava nei pressi del legale. Era una cecca (la gazza, ndr). “Allora che dobbiamo fare, dato che il nostro autore ci ha sfruttato, per non dire truffato? Ci ha messo in prima pagina senza compenso e senza chiederci scusa o la liberatoria, fino ad oggi?”

“Male, signori miei. Male per lui che non si è informato, che ha abusato della sua penna per scrivere senza dirvi che aveva scritto, senza chiarirvi come vi aveva trattato sul pezzo, senza proporvi una compensazione…”, sentenziò il pappagallo.

“Ah, ora gliela faccio vedere io!” entrò subito in argomento la volpe. “Proprio a me, mi ha trattato sempre come una ladra, una poco di bono, una che viene a patti una volta col padrone, una volta con le galline, il mio alimento preferito… Arivoglio il mio onore, costi quel che costi!”.

“Groàh! A me, mi ha messo in competizione con un bove. Che dovrei chiedere io?”, confessò mesto il rospo. “Ha spifferato le mie debolezze a destra e a manca. Ha sbeffeggiato e irriso la mia voglia di crescere e di progredire. Lui dice: mania di grandezza! A me! Una figura di cacca… Mi renda il mio prestigio, puttana troia!”

“Ehnnò, eh! Chi mi ha cercato. Io sono troia normale, di famiglia, la vera, ma non puttana… Da me si passa all’incasso una volta all’anno, quando lo dice la natura”.

“Groàh! E’ un modo di dire. Senza offesa. Si fa per dire, non stare a guardar il pelo. Le puttane da noi non esistono. Sono cose umane, quelle. Lo so. Almeno in tal frangente tra animali ci rispettiamo: noi ci accoppiamo o con uno per sempre o con uno alla volta. Su questo tema hai ragione, scusa. Non hai ragione, volpe mia, quando usi animali uguali o più piccoli di te per fare pranzo e cena…”, rimarcò le parole il rospo.

“Va bene. Ho capito”, disse l’avvocato, smorzando la discussione vana. “Stiamo andando fuori tema. Parliamo di un libro, di un autore che vi scrive addosso, che si inventa favole a vostro discapito. Che altra lagnanza potete rappresentarmi? Quale fattispecie potete raccontarmi come offensiva? C’è qualcuno che si sente offeso dall’autore e oggi va in giro con la coda tra le gambe dalla vergogna?”.

“Veramente qualche altro ci sarebbe”, accennò timido l’ermellino. “A me in verità non ha ancora preso di mira, ma se un domani si ricordasse che io ho un bel mantello, che sono elegante più di altri, che vado in giro e mi pavoneggio con la mia coda soffice e svolazzante, come mi potrei premunire?…”

“Lascia fare i pavoni. Fatti gli affari tuoi e camperai molto di più. Non sei d’accordo? Paga e ricorri contro. Di mantello e di coda pari a noi pavoni non ne possono sfoggiare altri al mondo. Quindi vuoi dire che noi pavoneggiamo? Noi siamo i pavoni e basta! Non ci nominate fuori luogo”.

“Guarda che per rispetto o no, per dimenticanza o no, io non ce l’avevo con te. Stamani tutti con la coda di paglia, qui. Tutti permalosi. Vogliamo cambiare discorso e mettersi d’accordo contro questo autore che campa a spese nostre?”, riprese l’ermellino. “Vogliamo rivendicare il nostro diritto a campare come ci pare o no? A me non mi ha ancora toccato, dicevo, ma se si tratta di garantire i diritti a tutti, io ci sto…” 

Il fringuello che non aveva coraggio di avvicinarsi troppo al “seggio” dell’avocato per non trovarsi vicino al falco, colse l’attimo e s’intromise con un gorgheggio che zittì tutti, indusse tutti ad ascoltarlo: “Signori, che io ho una bella voce non c’era bisogno di scriverlo. Lo sanno tutti. Se io le devo dire quattro a qualcuno, è certo che quello mi sente, ma per solidarietà, per amicizia, per zittire uno che non le sa nemmeno cantare, sono pronto a dare il mio contributo. Gli canterò di starsene zitto d’ora in poi…”

Intanto s’erano messi in coda a presentare le loro lagnanze la lucertola, la rana, la mantide religiosa, il camaleonte, la farfalla, i cervi, il gatto, il merlo, due galline ed una processione di tanti altri animali, quali mogi mogi, quali ad orecchie dritte interessati all’argomento del giorno. 

Mentre l’inutile discussione portava avanti tali quisquiglie, in lontananza, all’orizzonte apparve la giraffa che avanzava portando appeso al collo un cartello con scritto: “abbasso gli scrittori – rispetto per gli animali – vogliamo le scuse e vogliamo i soldi”, seguita da un corteo di altre bestie e insetti diversi.

Nel grande spiazzo aperto davanti al trespolo dell’avvocato, e davanti al gruppo, che s’era formato in precedenza, si fermarono tutti e si disposero in circolo come per ascoltare chi ne sapeva di più. Uno stormo di cornacchie, che s’era piazzato sull’albero più alto lì vicino, alzò la voce gracidando a squarciagola: “Silenzio!… Ascoltate, bestie vituperate e sfruttate. Ora avremo la risposta da chi ne sa più di noi… Ci insegnerà come dobbiamo comportarci. È nel nostro interesse. Silenzio! Zitti tutti!… La parola al pappagallo “, ordinò quella con il gracidare più acuto.

Il pappagallo, chiamato in causa direttamente, si schiarì la voce e con un tono aulico, a dir poco, cominciò la sua retorica elucubrazione. Tirò fuori una sentenza dopo l’altra, concludendo: “Insomma, amici miei, io ve l’ho detto e ripetuto. Questo libro a spese vostre, sulla vostra pelle, sulle vostre debolezze non sa da fare per nessun motivo, così come ho capito dai vostri intendimenti. E questo lo dirò io direttamente all’interessato a voce alta, prima di tutto. Ma se qualcuno non si fida o non si sente garantito, o addirittura vuole un risarcimento, perché di speculazione culturale si tratta, ebbene: io dico e sono disponibile, per quelli che lo desiderano e che vogliono, a proseguire con un’azione legale davanti al giudice supremo. Io li assisterò dall’inizio alla fine dell’azione, fino al recupero delle somme stabilite a risarcimento. A me non dovete nulla per il mio lavoro e per il mio prolungato impegno, – prolungato perché sappiate che ci vorranno molte sedute, molti testimoni e molto tempo -. A me dovete soltanto il venti per cento di quanto incassate a risarcimento a questione finita. Se siete d’accordo e chi è d’accordo, passi dalla mia segretaria, lasci i suoi dati: nome, cognome, caratteristiche personali, luogo di abituale dimora… ed una piccola cauzione per le prime carte bollate, che non servono a me, badate bene, ma al giudice, allo Stato…”

Un brusio in toni diversi si diffuse ora morbido, ora più acuto nell’aere sopra l’assemblea, sugli astanti, finché un papera pettegola prese la parola e con voce squillante chiese: “E a quanto ammonterebbe questa piccola cauzione, avvocato?”

“Ma, ora su due zampe non saprei. Non ho calcolato di preciso. Diciamo, facciamo cento penne…”

“E per chi non c’ha le penne?”

“Che poi sarebbero cento paoli…”, concluse il pappagallo.

“Che, sei rimasto al medioevo. Ma quant’è che non fai una causa,” urlò la massa confusa . E chi ne disse una, chi ne aggiunse un’altra.

Insomma da uno all’altro si spalleggiarono in molti contro l’avvocato, che pretendeva la parcella, sì che alla fine tutti insieme si ribellarono contro quello che li doveva difendere.

“Non vogliono essere presenti nella raccolta, ma non vogliamo nemmeno essere presi per il collo”, precisò il gatto. 

“Dobbiamo essere difesi per i nostri diritti, non per i soldi. Altrimenti tu, pappagallo, che ci stai a fare lì, nella categoria degli animali senza la parola, secondo il creato?”, urlò con voce baritonale e severa il bove.

Insomma le ragioni di chi non voleva pagare erano troppe ed ognuna diversa dall’altra. L’avvocato non sapeva a chi dare retta, quale ragione prendere a difendere per mostrare che anche lui sapeva fare qualcosa. Si sentiva scoraggiato e deluso. Qualcuno in fondo all’assemblea, borbottando, si girò indietro per tornare sui suoi passi: “Tanto qui non si conclude niente. Ognuno fa per gli affari suoi, purché ci sia guadagno…”. Altri seguirono i primi e lasciarono il piazzale, che presto si vuotò. Ogni animale riprese la sua strada per il bosco e brontolava e imprecava chi gli aveva fatto perdere tempo: “E’ tutto inutile. Non ci metteremo mai d’accordo su nulla. Troppe teste, troppe idee, troppi ingordi…”

Il pappagallo si trovò solo sul suo trespolo, un ramo dominante il piazzale e gracchiò sconsolato: “Va a far del bene agli ignoranti. Per loro le cose piovono dal cielo senza fatica. Non sanno il fiato che bisogna tirar fuori per farsi sentire, perfino per dimostrare i propri diritti…”.

L’ultima cornacchia, che era rimasta appiccata sul ramo dell’albero più alto, si mise a ridacchiare: “Avvocato, ecco i tuoi clienti. Erano molti, ma siamo rimasti soli. Forse non li hai convinti. L’autore aveva ragione”.

38 – LA RIVOLTA DEGLI ANIMALI