44 – La gazza ladra

(Dedicato a Renata)

Nel 1947 ero un regazzino, come si dice. Fu l’anno che andammo contadini alla “Corsica” nel poderetto di Silio Olivi. In famiglia eravamo in quattro in una casa grande grande tutta per noi, con la luce elettrica in tutte le stanze. All’Olmi avevamo luce a candela. 

Ci trovammo bene. Il vicinato ci volle bene: i miei erano giovanissimi con il babbo di ventitré anni scarsi. Cominciava un’avventura per tutti.

La moglie di Silio era la maestra Iole di Casteldelpiano. Lei fino ad allora aveva insegnato a leggere e scrivere ai bambini delle borgate vicine: Casa Dondolini, Casa Belardi, Casa Belardetti, Monte Calvo, Canalone. 

Iole era una di quelle maestre che facevano scuola in casa. Non era dipendente dello Stato, ma veniva pagata dallo Stato secondo quanti ragazzi superavano l’esame pubblico di fine corso. Qualcuno di quegli alunni è ancora presente tra noi e ha superato bene anche l’esame della vita. 

Dunque Silio e la famiglia lasciarono casa a noi e si trasferirono a Samprugnano. La maestra lasciò una stanza piena di oggetti per la didattica compreso la lavagna, i gessi e qualche giocattolo del figlio. Subentrammo noi, ma quelle cose nessuno le reclamò più (e forse sono ancora lì, perché Silvano, ultimo padrone di quelle mura, non ha cambiato nulla).

Questo era per ricordarmi che Iole era un tipo di donna piccola e magra, fine, signorile come a quel tempo ve n’erano poche a Selva. Veniva dal paese, ma non si risparmiava nelle faccende di casa. Alcuni anni prima che arrivassimo noi, il figlio Rodolfo aveva cavato un nido di gazzera e ne aveva allevata una. L’uccello era cresciuto domestico, o quasi. Trovava la finestra di casa aperta: andava e tornava, prendeva confidenza con chi vedeva più spesso, specialmente del vicinato. Si accostava a chi la chiamava e accettava volentieri i complimenti, qualcosa da mangiare, perché era ingorda e ghiottissima. <<Cecca, vieni qua; Cecca, prendi questo…>>. Tutti la chiamavano Cecca e lei capiva e obbediva, a modo suo: due svolazzi e si posava in attesa del premio.

Iole un giorno s’accorse che le mancavano le forbicine da sarta. Incolpò il figlio. Lui si dichiarò innocente, ma lei a quelle forbici teneva tanto, erano comode per i lavori di rifinitura: brontolò, minacciò, scongiurò il figlio di cercarle, magari con il suo aiuto; promise che gli avrebbe risparmiato le botte…

Le forbici non vennero fuori. Dopo qualche tempo sparirono di casa anche altri piccoli oggetti, soprattutto lucidi o nuovi. Fu allora che Iole collegò tutte le sparizioni all’ospite. In casa si cominciò a seguire di più i movimenti della gazza e quando veniva trovata sul fatto, veniva brontolata.

<<Cra, cra, cra…>> rispondeva lei e svolazzava per casa, magari facendo altri danni e dimostrandosi offesa. 

Ci fu un tempo che in famiglia la rimproveravano tutti e lei stava alla larga, dava meno confidenza, era proprio offesa. 

Fu a questo punto che divenne più maliziosa e cominciò a nascondere anche le cose più comuni e meno lucide, meno usate. Poi si fece più aperta alle amicizie con i vicini e cominciò a entrare anche nelle loro case e… a rubare cose preziose pure a loro.

Ad un certo punto anche i vicini si risentirono, la brontolarono, mentre la allontanavano da casa. Sì, e vero, a tutti era simpatica, rispondeva ai richiami, ma dovevano tenere il punto e redimerla dal vizio di rubare. Lei effettivamente girava più alla larga, ma quando si affacciava a una finestra e guardando dentro scorgeva un oggetto luccicante, la sua mania riaffiorava, la tentazione superava ogni minaccia e ricadeva nel peccato.

Le finestre dei padroni e quelle degli amici a una a una si chiusero in virtù della precauzione, la gazza rimaneva più tempo fuori, sostava di più sugli alberi di fronte a casa. 

Nel periodo della nidificazione cominciarono a circolare in quelle stesse piante altre gazze, forse di sesso diverso. Sta di fatto che un giorno la nostra gazzera non si vide più, non rientrò più a casa di Iole a prendere il cibo, non rispose ai richiami, non tornò a dormire nella sua gabbia. In famiglia e nel vicinato si pensò al peggio. Forse un altro animale rapace aveva approfittato della sua docilità?

Rimasero male tutti. Iole e Rodolfo conclusero che, se fossero stati più tolleranti, non si sarebbero privati di quella piccola e vivace compagnia. Ma poi a malincuore si dettero pace e pensarono che la gazzera aveva fatto bene a mettere su famiglia.

A primavera dell’anno seguente Rodolfo riprese la “caccia” ai nidi, come facevano da sempre i ragazzi della “Corsica”. Proprio nel fosso che passava a un centinaio di metri da casa notò un viavai di gazze insolito; si appostò nelle vicinanze e aspettò. Scoprì che due di loro avevano preparato il nido su un grande alloro verde lì in mezzo al fosso. Si avvicinò. Non aveva intenzione di prendere i piccoli, ma si avvicinò per vedere, forse troppo. Una gazza con grandi svolazzi gli andò contro, alla faccia: <<Cra…cra… cra…>>, più là un’altra: <<Cra…cra… cra…>> mentre lo minacciava con il becco e con le ali verso il viso.

<<Cecca, sono io, non voglio niente. Ho voluto vedere la tua nuova casa e la tua famiglia. Cecca, sono contento per te. Me ne vado, sì, me ne vado.>> Si voltò e prese a tornare indietro. La gazza più vicina lo seguì: <<Cra,.. cra… cra…>> fin sotto casa.

Rodolfo non capì se era per ringraziarlo o per assicurasi del suo allontanamento dal nido, ma gli fu chiaro che aveva ritrovato Cecca.

Davanti alla casa di Silio e Iole stava un tiglio che era cresciuto molto, troppo. Faceva ombra alla casa e rubava troppo sole da mattina a sera durante la bella stagione. La casa pareva più buia, più umida. Forse era il caso di riprendersi la luce necessaria: si decise di abbatterlo.

Sega, accetta e pennato furono gli attrezzi approntati e una mattina a buonora Silio con l’aiuto di altri uomini tagliarono il grande tiglio. Quando l’albero fu a terra e cominciò la spezzatura, da mezzo ai rami riapparvero forbici, pettini, anellini, un fischietto, pezzetti di vetro e aghi da sarta, tanti aghi di tutte le forme e grandezze: riapparvero le cose più impensate, dimenticate, nascoste nelle diramazioni, appese ai bronchi secchi. 

Lì c’era tanta roba e non soltanto sua. Iole chiamò le donne del vicinato, perché venissero a riprendersi le loro cose: <<Oh, ‘sta mascalzona!… Guarda quanta roba ha nascosto senza farci nulla>> si meravigliarono e quelle che riconobbero i loro oggetti, se li ripresero.

Così quel giorno tutti ripensarono alla gazzera ladra, alla Cecca.

Iole fu contenta di ricordarla, anche lei insieme agli altri le disse: <<Mascalzona…>> ma era per perdonarla. 

44 – La gazza ladra

43 – Amori di paese

Nel 1872 Caterina era vedova da due anni e il giovane Innocenzo, vicino di casa, scapolo, forte, ricco di virtù, sarebbe stato una garanzia: garanzia di sopravvivenza. Sì, perché Caterina, sulla via del declino, sfruttata dalle ripetute gravidanze, era consapevole di andare incontro alla vecchiaia da sola e probabilmente con molta fame nello stomaco. Innocenzo, invece, era libero, discreto, giovane riposato, di famiglia niente male… Forse troppo riservato.

Oltre il saluto, qualche confidenza saltuaria nient’altro dava a Innocenzo la spinta a saperne di più sulle donne, a interessarsi della vicina bisognosa di tante cose, oltre all’opera di spaccalegna. Insomma quando gli chiedeva una mano, un aiuto o di portarle due pezzoli in casa, Caterina faceva capire o provocava lo scapolo al salto di qualità, affinché questi si facesse coraggio nell’approccio. La donna, da parte sua, sapeva già che ci doveva stare. 

Prima o poiInnocenzo capì. Quel salto di qualità ci fu. Dopo diverse esercitazioni portate a termine intorno al pagliaio dell’aia di Caterina, Innocenzo prese l’ardire di entrare in casa di lei. Poi ci tornò una seconda volta, una terza… O sulla paglia o sui pagliericci di casa Innocenzo prese a cavarsela molto bene, divenne un giovane esuberante che presto recuperò tutte le mancate occasioni e mise in mostra un buono spirito d’iniziativa nel trattare con le donne. Perse la timidezza di un tempo. Non solo divenne meno introverso, ma pian piano recuperò fin al pari d’ogni altro uomo. Imparò che alle donne bisogna promettere eterno amore per essere preso in considerazione.

I due si sposarono e misero subito alla prova il loro amore e la loro voglia di ringiovanimento rafforzando la nuova famiglia. Nacque Veronica. 

La vita di questa figlia, però, fu lunga quanto le stagioni del sole, perché molto presto morì. Al dolore e alla delusione la madre sopravvisse ben poco tempo. Infatti, non molto tempo dopo pure Caterina venne a mancare. 

Innocenzo, non tornò nello sconforto; vedovo, ancor giovane e solo era ormai bene avviato nel rapportarsi con le ragazze o le zitelle, abbiamo detto: la sposa matura era stata una abile preparazione all’apertura verso un mondo nuovo, il sesso. Anche se aveva goduto poco quella buona opportunità.

Francesco sulla sua strada presto incontrò la giovane men che ventenne Maria. Per la verità lei abitava a Casa Ripaccioli, la borgata vicina, ma i loro interessi quotidiani viaggiavano per le stesse carrarecce, per i medesimi sentieri. Un po’ per via di qualche parente che facilitò l’incontro, un po’ perché le due anime sole erano in cerca di una controparte cui affidare le confidenze di cuore, fu proprio nei primi giorni d’inverno, che capitò l’occasione dove Innocenzo e Maria poterono entrare in familiarità. 

I due erano in cerca di un riparo dal freddo. Lei era piuttosto timida, riservata come lo era stato Innocenzo fino a qualche anno addietro. Del resto, un po’ robusta, non si sentiva abbastanza bella. Si conobbero, si frequentarono e l’ormai uomo esperto comunicò sicurezza e fiducia alla giovane, mentre approfittava della sua ingenuità. D’altra parte anche Maria non vedeva l’ora di sentirsi donna matura e poter intraprendere la stessa familiarità con l’altro sesso. 

Gli appuntamenti si combinavano per lo più nella capanna delle pecore, l’ovile, per intenderci, lontano dalle abitazioni, in mezzo alla campagna destinata a pascolo. Maria faceva uscire le bestie dal riparo, le avviava per il prato vicino e poi tornava indietro e aspettava… l’amore. Innocenzo, dopo aver sistemato il suo gregge nei suoi campi, arrivava puntuale alla capanna di lei. I due senza molti preamboli s’attardavano là dentro nei giochi che mandavano in estasi i loro sensi. Non per molto, perché il richiamo del dovere del pastore era sempre lì: non dimenticare le pecore libere al pascolo. 

Allora i due amanti si salutavano, poi si separavano come se nulla fosse accaduto.

Gli incontri andarono avanti in segreto per diverso tempo, sempre con le stesse modalità, sempre con la stessa circospezione. 

Ma erano così clandestini agli occhi di chi voleva sapere, che presto nessuno dubitò più della relazione tra il vedovo e la nubile ragazza. Del resto quella malcelata segretezza, durata un inverno e una primavera intera, non era nemmeno possibile custodirla a lungo. Infatti, dopo lo strascico di chiacchiere e dopo una certa passionale frequenza, Maria si ritrovò incinta.

La povera fanciulla non sapeva da che parte cominciare: dirlo in casa e preparare il corredino necessario, portare avanti la gravidanza da sola, oppure affrontare un matrimonio riparatore? 

Nel decidere si perse tempo utile. Comunque il risultato fu che il figlio sarebbe nato benvoluto e il padre non sarebbe sfuggito alle sue responsabilità. “Un figlio ci aiuterà a far conoscer a tutti che ci vogliamo bene”, le spiegò Innocenzo. 

Fu una figlia. I genitori si dichiararono, ma al battesimo il parroco non poté fare a meno di annotare: “…nata da copula illecita pubblica”. Insomma in paese sapevano tutti che Chiara era venuta al mondo da un rapporto non canonicamente regolarizzato da santa Madre Chiesa. 

Quando poi con calma Innocenzo e Maria convolarono a giuste nozze, non fu necessario nemmeno correggere l’atto di nascita e di battesimo di Chiara con l’aggiunta della solita formula di riconoscimento usata per i figli nati fuori del matrimonio. Così la piccola si porterà dietro quell’etichetta di quattro parole poco diplomaticamente aggiunte nel libro dei battezzati da frate Celso e ripetuta in ogni documento ecclesiastico.

43 – Amori di paese

42 – La Fonte di Casa Marchelli

A Casa Marchelli, borgata della Corsica, tutto normale, diciamo, nella vita dei nostri coltivatori della terra fino a un venerdì diciassette novembre del 1953. Quella mattina prima Emilio, poi il fratello Jader, andando a prendere la cavalla per insellarla, la trovarono con la foltissima criniera intrigata da minutissime trecce. Tutte e due, ognuno la sua. Non solo, ma erano intrigate e incollate col fuoco pure le lunghissime code dei cavalli. I due fratelli, prima di intraprendere nell’opera di ‘distrigo’ o di taglio sentirono la necessità di consultarsi, non sapendo che quanto era toccato all’uno era accaduto anche all’altro.

<<Chi può essere stato? e perché?>>, si chiesero, dopo essersi raccontate le disavventure parallele.<<Chi può aver avuto tanto tempo e pazienza per intrigare tutte quelle trecce?>>

Si fecero tutte le domande possibili. Tante supposizioni. Chi fosse stato così abile con le mani al buio. Emilio buttò là un sospetto: <<Lì c’è la mano prodigiosa di uno spirito maligno, secondo i nostri vecchi.>>

<<Quella mano la sospetto anch’io. Io non lo volevo ricordare, ma una volta avrebbero detto ‘l’ha fatto una strega’ per invidia>>, concluse il fratello.

<<Ora che facciamo?>> si chiesero. Intanto lo seppero le famiglie, poi la notizia prese a girare nella borgata e in quelle vicine. Cominciarono a giungere le risposte più disparate a questa domanda. Qualcuno consigliò:

<<Dovete sciogliere le trecce una per una. Non dovete tagliere le trecce o le criniere. Dovete cercare un frate che venga a benedire le stalle. Quello è il lavoro di un strega messa alla porta con i sistemi antimalocchio: di una strega… venuta da lontano>>.

Qualche altro ricordò pezzi di leggende tramandate dall’antico. Infine ci fu chi mise insieme quei pezzi. 

Quando i Corsi, ex pirati e briganti dell’Isola, vennero a rifugiarsi alla Corsica (borgata di Selva) nel quindicesimo secolo, s’erano portati dietro delle donne ostaggio, rapite qua e là per i porti e i paesi che avevano attraversato, donne di tutte le età, per lo più giovani, di tutti i ceti, di tutte le condizioni sociali, vergini, mogli e madri di famiglia, per lo più molto belle. Quelle donne furono usate come mogli, come amanti, per… tutti gli usi. Anche come prostitute dei predatori. I Corsi queste le tennero chiuse, separate dalle altre più affidabili. Sicché tutte le prostitute, rimaste prive della loro famiglia, prive di un marito, senza averne trovato un altro, ebbero a lamentarsi molto e, sotto la guida di una di loro esperta nel campo della magia, si coordinarono per cercare una via di fuga, per trovare una via di fuga dal serraglio. Insomma per rifarsi una vita.

L’esperta di magia disse alle altre: <<Preparerò un pozione. Ve ne sarà una dose sufficiente per ognuna di noi. Quella, che verrà scelta e portata fuori per sottostare ai giochi e alle pretese amorose dei Corsi, dovrà soggiacere più disponibile possibile, fino a convincere lo stupratore di bere con lei la pozione. Mi raccomando, prima benedite il tutto, inzuppateci le dita che avranno toccato qualcosa di lui, poi fate finta di bere. Mettete in bocca il liquido, tenetelo e appena distratto l’uomo, giratevi e sputate… Se è il caso, aiutatelo a ribere la pozione perché possa riprendere vigoria subito dopo il primo approccio, gli raccomanderete.>>

Accadde che da lì a qualche giorno i Corsi davvero aprirono il serraglio, scelsero tre donne tra le più belle e floride e si allontanarono con loro verso capanne isolate. 

Le pozioni che ognuna s’era portata con sé sotto la gonnella andò a buon fine. Gli uomini dimostrarono forte vigoria e contentezza. Bevvero, festeggiarono, gozzovigliarono, si persero in giochi amorosi, finché furono coscienti, perché presto si addormentarono. 

Furono abbandonati così in disordine, come uomini soddisfatti e ubriachi. Le donne, sicure di aver servito al meglio i loro padroni-aguzzini, come perfette donne di casa, si avviarono per le campagne in cerca di altri paesi e di altre sistemazioni. 

Non rientrarono nel loro serraglio a continuare la vita da schiave, lasciando sole le compagne. 

Le conseguenze furono manifeste e pesanti nei giorni seguenti. I Corsi non si ripresero dal loro sfinimento fisico e sessuale. La colpa non fu subito attribuita alla pozione, ma a ben più vaghi sforzi. In definitiva almeno tre tra gli uomini più vigorosi nella Comunità risultarono fuori uso per l’avvenire, ma ormai le colpevoli s’erano defilate. 

Il capo dei Corsi allora chiamò a rendere conto del misfatto le rapite rimaste e chiese che sostanze e mezzi avessero usato per tramortire gli uomini. Le donne caddero dalle nuvole, nessuna confessò niente. Da qualche vaga ammissione, però, il capo comprese che una pozione strana era in possesso delle prescelte. Di più non seppe. L’antidoto, la contropozione non venne fuori. Sicché il consiglio degli ex pirati deliberò che quelle donne tenute schiave erano tutte streghe e le condannò al rogo.

Il rogo fu semplice ad allestirsi. Il fosso della fonte della borgata era un bosco buio, ricco di una folta vegetazione. Gli uomini chiusero il tratto del fosso in cima e in fondo con fascine e cataste di legna, vi avviarono dentro le streghe, dettero fuoco alle fascine in cima, in fondo e ai lati del fosso, finché le streghe non furono soffocate e bruciate vive, tutte. Poi dai bordi del fosso gettarono dentro terra e sassi e coprirono lo sterminio perpetrato con il contributo delle prime piene invernali.

Rimase un problema, perché alla Comunità della Corsica ogni tanto apparivano quelle anime perseguitate in cerca di pace, facendo dispetti e danni in ogni modo.

Emilio e Jader avevano costruito le loro stalle proprio al confine del fosso, quindi, conclusero che stavolta lo scontento delle streghe aveva colpito a loro e proprio loro si dovevano arrangiare. Decisero di chiamare il frate per i riti di esorcismo per benedire il luogo e… poter rasare le loro cavalle. 

Così fecero: il frate venne, esorcizzò poi fu ben compensato, perché due fratelli erano benestanti.

Oltre duecento anni fa alla Corsica era esistito un certo Marco degli Olivi, della famiglia che aveva costruito e abitato in esclusiva quella borgata. Gli Olivi erano benestanti e questo signore era un uomo birbante, sveglio: ne combinava di tutti i colori, si diceva. Intelligente simpatico, ma soprattutto intraprendente con l’altro sesso. I vicini, che trattavano con lui, lo soprannominarono Marchella, che era una sfumatura di tante cose. Il soprannome caratterizzò tanto l’uomo da essere trasmesso alla discendenza, i Marchelli. Fu così che in seguito la Corsica si suddivise in due borgate: Casa Belardi, di Belardo/Bernardo il vecchio casale e Casa Marchelli, di Marco, il nuovo.

Anche Emilio circa cento anni dopo era un discendente dei Marchelli e viveva in una delle loro case, che nel frattempo si erano moltiplicate. Lo conoscevo bene. Un uomo sempre serio, a noi bambini incuteva un certo timore, ma era l’uomo più innocuo e buono della terra. La severità era accentuata da due sopracciglia folte e nere che quasi coprivano due occhietti piccoli, profondi, celesti, ma di cui mal riuscivo a intravedere il colore. Era flemmatico nei movimenti e nel parlare, e la flemma caratterizzava anche l’impostazione della voce. Se imparavi a conoscerlo ti rimaneva simpatico. Emilio era anche arguto e quando aspettavi una risposta da lui, sapevi che dalla sua flemma usciva una succinta sentenza. Era curioso e interessante ascoltarlo. 

Di Emilio se ne raccontano tante: è stato arguto, ironico fino alla chiusura dei suoi giorni.. Non si piangeva addosso nemmeno dopo esser divenuto cieco, molto sofferente e infermo a letto.

Di lui abbiamo raccontto questa accaduta a Casa Marchelli.

Emilio infatti aveva una cavalla che in ogni stagione lo portava a far visita al suo contadino nei pressi del Lago Acquato. Aveva il fienile vicino casa, dove teneva il fieno, gli attrezzi, due vacche, i vitelli e la cavalla appunto. Salendo oltre il fienile v’era un orto grande diviso in due con il fratello, annaffiato da una fonte alimentata da una ricca sorgente che veniva fuori duecento metri più sopra. Salendo ancora sopra il Fontanile dei Marchelli, dopo un burrone dagli argini profondi e ripidi, piantati di faggi, v’era il fienile del fratello, dove erano sistemate altre vacche, vitelli e un’altra cavalla. Questo è il luogo delle streghe dei Corsi.

42 – La Fonte di Casa Marchelli

41 – Il lago magico

favola di Chiara

C’era una volta sulla riva di un lago un orso che ogni giorno era arrabbiato e non sapeva il perché. L’orso era anche il principe della foresta in cui viveva e del castello che v’era dentro. I genitori, però, non lo facevano entrare nel castello di giorno, perché pensavano che con la sua rabbia poteva attaccare tutti coloro che vivevano nel castello. Infatti, proprio per questo l’orso doveva stare tutto il giorno sulla riva del lago in mezzo agli alberi. Così lì poteva anche mangiare.

Un giorno l’orso si chiese se fosse arrabbiato per colpa della foresta, e, anche se era il principe di essa, voleva andarsene, tanto nessuno si sarebbe accorto della sua assenza. 

Tutti gli abitanti della foresta non sapevano neanche che egli esistesse eccetto il suo migliore amico, cioè il lupo di città. L’orso lo chiamava così, perché viveva appunto nella città vicina, da cui il lupo poteva andare nella foresta quando l’orso aveva bisogno. 

Il lupo e l’orso erano diventati amici perché il lupo, quando l’orso era piccolo, lo aveva salvato da dei lupi feroci, che lo stavano attaccando. Il lupo, saputo che l’orso se ne voleva andare, andò da lui per chiedergli dove volesse sparire. Allora l’orso gli chiese se poteva entrare anche lui in città. Il lupo, sapendo che, se l’orso avesse messo piede in città, lo avrebbero ucciso, cercò di dissuaderlo, pure se l’orso non lo voleva ascoltare. 

Il lupo tentò di fermare l’orso provando a morderlo, ma appena lo fece, l’orso si arrabbiò così tanto da scaraventare l’amico nel lago. 

L’orso si accorse che il lupo non risaliva in superficie. Allora si buttò in acqua e anche se non sapeva nuotare, cercò comunque di salvare l’amico con tutti gli sforzi. Non ce la faceva, e, mentre stava cadendo sul fondo, si ricordò di quando era piccolo e del perché era sempre arrabbiato: il motivo era che una vecchia strega malvagia aveva fatto un terribile sortilegio al piccolo orso che l’avrebbe reso rabbioso per sempre.

L’orso, appena si riprese, riuscì a tirare fuori l’amico dal lago e stava bene. Poi l’orso non gli chiese altro, perché pensava di continuo a quello che gli aveva fatto la strega. Voleva sapere il perché. 

Per prima cosa andò dai suoi genitori per sapere chi fosse la megera e dove la poteva trovare. I genitori purtroppo non lo sapevano. 

Deciso a non mollare ripensò al ricordo passato e provò a chiedere al lago magico dove vivesse la strega. Il lago non rispondeva, però, mentre l’orso se ne stava andando, il lago rispose: “Nel castello della foresta”. 

L’orso si precipitò al castello di nascosto e controllò tutte le stanze ma non c’era nessuno a parte i genitori e il lupo. Sconvolto e spaventato, perché non capiva, andò di nuovo dal lago magico e chiese: “Per caso la strega è il lupo?” Il lago rispose: “si!”. L’orso, arrabbiatissimo, corse al castello e chiese al lupo: “Sei tu che mi hai fatto il sortilegio?” Egli rispose: “si!” e all’improvviso il lupo si trasformò ancora nella vecchia strega.

L’orso accecato dalla rabbia cercò di uccidere la strega, ma lei sparì di colpo. 

I suoi genitori intanto, sentendo un grosso rumore provenire da un’altra stanza, andarono a controllare. Appena videro il figlio così sconvolto, scapparono anche loro, ma prima l’orso chiese loro: “Anche voi eravate a conoscenza di questo?” Spaventati risposero: “si!” L’orso severo li esiliò lontano dalla foresta, anche se i padroni erano loro. 

A quel punto l’orso decise che non voleva più essere arrabbiato. Così andò dal lago magico e gli chiese: “Fai sparire il sortilegio che mi ossessiona da una vita”. Il lago, però, gli rispose che l’avrebbe fatto solo ad un patto: soltanto se lui avesse governato tutta la foresta con onestà e imparzialità. L’orso accettò. 

Finalmente il sortilegio svanì e l’orso regnò nella foresta per molti anni, felice e sereno.

41 – Il lago magico

40 – I NONNI NON MUOIONO MAI

 

Il parco pubblico della popolosa città era il luogo più amabile e ambito da grandi e piccini. I grandi lo usavano per passeggiare e correre girando intorno, per prendere una boccata d’aria buona mattina o sera; i piccoli lo usavano come luogo sicuro per correre, per giocare, per liberarsi dagli assilli dei grandi all’aria aperta.

Tigli, abeti, cipressi, pini ombreggiavano ogni spiazzo, ginestre, cespugli sempreverdi, qualche pungitopo, dei ciuffi di rose qua e là componevano il parco, che era molto esteso e verde sempre: fresco d’estate, al riparo nei periodi di mezza stagione. Strade sterrate e vialetti battuti lo percorrevano, lo intersecavano e facevano capo ad altri spiazzi aperti. Poche erano le strade asfaltate. I colori, diffusi o vivaci, apportavano bellezza, allietavano lo sguardo, lo rendevano variato e gradevole nelle sfumature di ogni stagione: aiutavano a distrarre i frequentatori dalla quotidianità. Panchine e tavoli di legno permettevano un momento di riposo e di distensione per chi doveva controllare i piccoli, tirando due chiacchiere in libertà. Il profumo di resina, di fresco rinnovava l’afflato delle narici ogni volta. 

Un gruppo di nonni aveva preso a frequentarlo ed a ritrovarsi lì portandovi a spasso i loro nipotini, luogo giusto per la salute di tutti, appunto. All’inizio della nostra storia chi spingeva una carrozzina, chi passeggiava tenendosi il bambino per mano, chi giocava ad essere piccolo quanto il nipotino. 

Tutti i pomeriggi dopo le quattro lo stuolo di nonni e di bambini, maschi e femmine, di età uguale o di poco diversa, come per magia, come per antico rito, come per un richiamo concordato si ritrovava lì per rispondere ai loro impegni di famiglia. Era divenuta una sana abitudine, tanto che si davano proprio appuntamento al giorno dopo: “Ci vediamo domani, ciao…”, era il saluto.

Giampiero era il nonno di Giulio, Luigi era il nonno di Lucrezia, Giovanni spingeva Andrea, Filomena cullava Camilla, Vera passeggiava Lorenzo, Francesco accompagnava Alessia. Saltuariamente poi si aggregavano a loro altre coppie meno assidue.

I piccoli, crescendo, avevano preso a giocare insieme, a cercarsi, a bisticciare. I grandi, prima avevano preso a scambiarsi qualche parola, poi, costruita l’amicizia, avevano preso a incontrarsi, a raccontarsi le loro vicende e le loro vicissitudini, fino a mettere nella fiducia degli amici qualche confidenza di famiglia, qualche avventura.

Sicché al mattino o di pomeriggio capitava di vedere spingere carrozzine, ma capitava pure di vedere nonni correre da un albero all’altro, da un cespuglio ad un altro per giocare a nascondino, fin quando improvviso sentivi: “tana, liberi tutti”. Era il più grandicello dei pargoli, un po’ più smaliziato che sorprendeva nonni e amichetti nel gioco di sveltezza e abilità. 

Passavano i giorni, passavano gli anni, i bambini crescevano bene, i nonni invecchiavano, ma continuavano a seguire la loro discendenza con amore e assiduità. Il tempo aveva portato un grande dono a tutti, grandi e piccoli: aveva consolidato un’amicizia comune, forte.

Capitò pure che il nonno di Giulio e la nonna di Camilla si prendessero in simpatia più di altri e si attardassero più degli altri in discussioni sull’amicizia, sulla filosofia, sugli amori…

Il gruppo crebbe in età e giudizio. I nonni si fermarono e trovarono il tempo per una partita a dama, qualcuno cominciò a portarsi le carte dietro, sempre pronto a tirarle fuori quando rallentava la frenesia dei giovani; poi… c’era stata la guerra. E giù racconti di pericoli e imprese vissuti: tutti i nonni erano reduci ed ex combattenti: mamma mia, le avventure, i rischi passati e rivissuti. Le nonne, invece, erano state tutte staffette partigiane per seguire un amore nascente, magari di fuoco, in certi luoghi impervi… Ma pure i ragazzi a confine con l’adolescenza si fermarono, adottarono un tavolo e cominciarono a raccontarsi di professori e compiti male impostati, mal concepiti, mal corretti e mal valutati. Le lagnanze, le incomprensioni, i lamenti, le ingiustizie e… i piani di ribellione contro i professori prepotenti affollarono le menti di quelli sottostimati.

Alcuni maschietti trovarono corrispondenza nei sentimenti di altrettante femmine. Vi furono le femmine, però, che furono indecise nel fermare l’amore su uno degli amici di sempre. In fin dei conti tutti erano amici di tutti e tutti si confidavano ogni cosa, compresi il nascere e il crescere dei sentimenti da adolescenti, prossimi all’amore.

Un giorno una brutta notizia gelò il gruppo: era venuto a mancare Luigi. Tutti parteciparono al dolore di Lucrezia con un sentimento condiviso. Tutti furono tristi insieme. Poi toccò a Giampiero, sicché Filomena rimase vedova… per la seconda volta. Dopo morì Vera e giù giù in sette anni, o poco più, i nonni di una volta, gli amici del parco, i nonni di tutti i ragazzi furono richiamati in cielo. 

Ormai, però, quei nipoti erano grandi, autonomi: chi all’università, chi alla maturità. Tutti legati da un’amicizia profonda, sì, come di famiglia, ma tutti con una propria vita sentimentale in corso. Nessuno s’era fidanzato con l’amico di giochi di un tempo.

Passò qualche altro anno. Le amicizie di una volta parvero dimenticate, messe in disparte, disperse. Nessuno dei ragazzi del parco pareva ricordare il legame di una vita insieme. Iniziò anche per loro la ricerca di una sistemazione lavorativa, come per tutti i coetanei. 

Ma proprio a questo punto della vita, della nostra storia, ci fu uno che volle ricordare gli amici del parco. Giulio volle rivivere ancora una volta i legami della fanciullezza, della pubertà, di una vita intensa passata troppo veloce. Volle rivivere almeno un saluto… prima di dimenticare del tutto.

Un giorno chiamò Lorenzo, che chiamò Camila, che telefonò a Vera e così di seguito, finché tutti e sei il 24 giugno del 1999 si ritrovarono nel loro parco, seduti sulle loro panchine intorno al tavolo di legno di una volta, a quello adottato.

Con nostalgia ricordarono tutti i compleanni festeggiati lì. Proprio quel tavolo ne era stato testimone per tutti, giovani e vecchi: a chi l’aveva portato alla maturità, a chi aveva l’avvicinato alla… chiusura della storia.

I giovani si strinsero tutti in un grande abbraccio e si sedettero al loro posto. Poi cominciarono a raccontarsi degli studi, del lavoro, della famiglia e chi aveva un amore lo rese noto a tutti. Fu bello vedere gli occhi degli amici di un tempo che brillavano comunicando o ascoltando l’ultima, la vera conquista di uno di loro. Soltanto Alessia e Andrea erano poveri di notizie in questo campo, ma anche loro quel giorno stavano costruendo una bella giornata felice, con un tuffo nel passato. 

“Ragazzi, per rivivere in pieno questo giorno e dare un senso a questo ritrovarsi dobbiamo ritornare piccoli, dobbiamo rigiocare come allora”, propose Camilla. “Lorenzo, conta…”. 

“Sìììììì, evviva!”, fu il coro.

In un attimo come una nuvola colpita dal temporale, quei giovani si sparpagliarono. Ognuno ricercò il cespuglio preferito, o il pedone del pino per nascondersi, cresciuto anche lui.

“Tana per Giulio!”, il primo avviso. Passò qualche secondo di silenzio assoluto, poi: “Tana per Lucrezia…”. Il giro si chiuse. I partecipanti scanzonati, festanti, e saltellanti si ritrovarono tutti in cerchio a commentare, a dire scemenze, esilaranti…

“Tana, liberi tutti!”. Imprevista col suo avviso saltò fuori Vera da dietro il tronco di un pino lontano. Ed ancora Giampiero da dietro l’albero vicino, poi Luigi e Giovanni dal cespuglio più avanti; infine si palesarono ancor più lontani Filomena e Francesco. I nonni, c’erano tutti.

Un coro di “Oh”, di meraviglia fu sospirato dai ragazzi insieme. “Mamma mia, sono tornati anche i nonni a giocare con noi! Che bella sorpresa”, gridò Giulio. “Evviva, evviva!!!”. I ragazzi corsero incontro ai nonni ad abbracciarli. Tutti si strinsero forte, come non avevano mai fatto, tutti si commossero.

“E ora che facciamo? Vi siete fermati?” Chiese Vera. “Via, seguitiamo a giocare. Finiamo la partita. Come una volta, poi ci raccontiamo. Voi ne avrete di cose da dire…”.

Il gioco riprese, come una volta, come se nulla fosse accaduto nel frattempo. E giocarono sul serio: i giovani scattanti, sempre pronti, i vecchi con gli acciacchi di sempre, ma nessuno ci fece caso, nessuno avanzò impedimenti, nessuno ebbe a ridire su chi si attardava ad uscire dal nascondino.

Si stancarono tutti. La solita nonna s’accasciò sulla panchina al tavolo: “Ragazzi, basta! Io sono cotta…” 

“Anch’io…” aggiunse un altro nonno.

“Sì, forse abbiamo esagerato a riprendere dopo tanto tempo con tanta passione. Ci fermiamo, per oggi”.

“Andiamo al bar a prendere qualcosa tutti insieme, a festeggiare, perché i nonni avranno tante cose da raccontare…”. 

“E perché voi no? Noi per la verità v’abbiamo seguito e visto tutti, però le novità ce le dovete raccontare voi…”. Precisò Francesco. E s’avviarono…

“Ma nel vostro mondo allora vi vedete. Che vi dite, che fate?”, chiese Lucrezia.

“Se state fra le nuvole, hai voglia a fare nascondino, chi vi trova più? Non dite che avete ripreso a pomiciare”, aggiunse di seguito Giulio, malizioso.

“Intanto abitiamo tutti in paradiso – rispose Luigi -, come si dice da viventi. Noi vi vediamo ogni momento, sì, e non siamo lontani. Il paradiso non esiste. Il paradiso è anche questo: essere sempre presenti e felici. È tutto. Non abbiamo lasciato niente oggi, soltanto ci siamo resi viventi per condividere la vostra felicità. Vi abbiamo visti così contenti e puri di mente nel voler continuare la vostra e la nostra amicizia che non abbiamo potuto rimanere spirito. Oggi per il vostro amore pieno, così universale ci siamo sentiti coinvolti e siamo qui in carne ed ossa come quando abbiamo iniziato vederci, noi vecchi, voi fanciulli”. 

“Ma nonno Giampiero e nonna Filomena hanno finalmente avuto tempo e modo per confidarsi i loro sentimenti o no? Lasciarsi andare alle loro aspirazioni che il timore umano frenava?”, chiese Alessia.

“Ragazzi, nel nostro stato siamo soddisfatti, ogni amore è puro e completo. Nei nostri cuori c’è spazio per tutti. Non abbiamo bisogno di altro. Non v’è gelosia, non v’è odio”, rispose Filomena, filosofando.

“Lo dicevo, io, – commentò Lorenzo -, che nonna non era morta. Me lo sentivo. Gli volevo troppo bene ed il bene non ha fine, non muore. Noi siamo sempre bambini ed i nonni sono ancora qui ad assisterci”.

“Allora finalmente possiamo ubriacarci tutti, oggi – giocò Andrea -. Tanto i nonni la reggono la birra e continueranno a guardarci per non andare a sbattere”.

40 – I NONNI NON MUOIONO MAI

39 – La fonte della Ripa e i rapaci che l’abitavano

Falchetti, allocchi, barbagianni, civette ed altri uccelli, rapaci e non, da sempre, anche in antico erano soliti nidificare negli anfratti, nelle crepe e negli sbalzi della Ripa. La Civetta, però, pare che nel periodo medievale avesse preso il sopravvento sugli altri fruitori di quei sassi. 

Dispettosa come non mai, la notte, mentre tutti partivano in cerca di prede e cibo, lei invece non usciva a caccia, ma rimaneva nel suo nido. Aspettava che quelli dei vicini fossero vuoti e indifesi dagli adulti e dai padroni, poi uno alla volta li visitava e li depredava delle uova e degli eventuali piccoli.

Col passar delle stagioni e degli anni i vicini di nido delle civette non soltanto non si moltiplicavano, ma decrescevano nella specie. Sparirono gli uccellini più deboli, diminuivano i falchetti, le poiane, i barbagianni… Rimase qualche allocco ingenuo, perché non si domandava mai come si era fatto tanto spazio intorno a lui. Egli si autocolpevolizzava col fatto che forse era goffo nel corteggiare le allocche. 

Con quel passar di tempo, però, capitò più di una volta che la Civetta venisse sorpresa a rubare nei nidi dei vicini. D’altra parte i nidi erano lì quasi a contatto con il suo, in poco spazio, tutti in fila, facili da raggiungere. Tra gli animali ci fu chi si lamentò senza far troppo chiasso. Quando la maggioranza fu convinta di avere una ladra in casa, convocarono un’assemblea nella parte più libera della rupe con l’intento di deliberarne la condanna e lo sfratto da tutta la facciata della Ripa. Naturalmente la costrinsero ad essere presente senza notificarle l’ordine del giorno. 

Nel giorno e luogo convenuto la Poiana prese la parola e illustrò l’ordine del giorno segreto: <<Cari fratelli ed amici abitanti questa rupe da secoli, ci siamo qui riuniti per constatare un fatto increscioso: le nostre specie, le nostre famiglie, qui residenti da generazioni e generazioni oggi sono ridotte a pochi esemplari, a poche specie, anzi siamo tutti in via di estinzione, perché qualcuno in modo fraudolento non ci ha permesso e non ci permette di moltiplicarci come natura comanda. Ci siamo resi conto, dopo ripetuti accertamenti, che non è affatto difetto nostro, ma è colpa di un amico che alleviamo con noi e al momento opportuno, quando noi ci allontaniamo dal nido, lui ci sostituisce e lo vuota. E’ così da sempre, perché noi da sempre ci siamo fidati della Civetta…>>.

A questa parola un gran frastuono, un gracidio, svolazzi, invocazioni d’aiuto riempirono la facciata della Ripa e la valle circostante, perché tutta l’assemblea non si resse all’ira e, come per un segnale convenuto, fu addosso al designato colpevole.

<<Amici, fermi. Amici, amici miei, fermi, fermi tutti, un attimo… Aspettate…>>, continuò inutilmente a urlare la Poiana, che aveva già perso la parola. 

Passarono invano alcuni momenti, finché gli starnazzi, le vendette personali si acquietarono alquanto. Un Barbagianni un po’ defilato, con tono più pacato, assai tranquillo nel modo di porgersi all’assemblea, intervenne e propose:

<<Amici anche miei, scusate se intervengo nel mezzo della baruffa e delle vendette. Come vedete la condanna della colpevole l’abbiamo quasi eseguita, ma io consiglio che l’assemblea adotti una condanna pubblica e più ragionata, se possibile. Propongo, dunque, prima di una discussa ed equilibrata conclusione con eventuale condanna, di nominare la Capinera a presidente e moderatrice dell’assemblea. Lei, che è là in fondo, sicuramente è interessata e sta seguendo la nostra riunione>>.

<<Sì, sì… D’accordo per la Capinera presidente!>>. Un coro, anzi l’unanimità dei rapaci astanti approvarono la proposta.

L’assemblea nominò la Capinera, conscia della sua imparzialità. Quella dall’angolo in disparte della Ripa uscì allo scoperto e si posizionò nel mezzo a tutti i rapaci, che le incutevano comunque timore e apprensione.

<<Grazie della fiducia, amici. Ho ascoltato il vostro contendere. Spero che vi possa essere utile e soprattutto che teniate presente questo mio servizio quando avrete fame…>>. Seguì un brusio e un aperto applauso.

<<Ho seguito – proseguì la Capinera – il vostro ordine del giorno. Siccome non vi sono argomenti contrastanti o concorrenti, dò la parola al Falchetto. Parli, prego…>>. 

<<Grazie, signora presidente. Signori, amici rapaci, amici volatili, qui tutti siamo stati vittime e testimoni delle ruberie e dei misfatti della Civetta. Non vi sono dubbi, non vi sono attenuanti alla sua colpevolezza. C’è poco da dire, bisogna allontanare dalla Ripa una nemica del genere nostro, dopo averla punita e ridimensionata nella specie e nella parentela, come ha fatto lei con noi. Spero non vi siano dubbiosi>>.

<<Grazie per aver espresso il suo pensiero, Falchetto. La parola al Barbagianni, che si è prenotato…>>, comandò la Capinera.

<<Anch’io non ho dubbi e non sono contrario alla proposta del Falchetto, ma ragioniamo più attentamente. La Civetta ha messo in atto la strategia di distruggere noi, considerandoci rivali, concorrenti nel cibo, forse. Non so che le sarà passato per la testa, attuando il suo piano molti e molti anni fa. Ma, peggio, noi non ce n’eravamo accorti fino ad ora. L’abbiamo sempre tenuta a parte dei nostri piani, dei nostri giochi, delle nostre amicizie… La nostra fiducia è stata mal riposta. Lei l’ha tradita. Abbiamo allevato una serpe in seno, dicono altrove. Non la possiamo liquidare con una semplice vendetta o pena. Allora propongo che la nostra condanna valga per l’avvenire, che sia conosciuta dal mondo intero, presente e futuro. Noi dobbiamo affermare e divulgare che la sua famiglia sia portatrice di malanni, che sia precorritrice di disgrazie e che sia temuta come la sfortuna vivente per tutta la valle. Così che lei sia costretta a nascondersi il più possibile, che il suo canto sia temuto malaugurante, che, perciò, venga evitata, mai aiutata dagli animali e dagli uomini. Per ottenere questo dobbiamo stringere un accordo con le più rinomate fattucchiere del territorio… Vedete voi>>. 

<<Prenda la parola l’Allocco, – tagliò la Capinera -. <<Concluda, lei, visto che non vi sono altri iscritti a parlare…>>.

<<Che volete, che devo dire, io – farfugliò goffo, come insonnolito l’Allocco, come preso alla sprovvista -. Sono d’accordo, amici. Sono proprio d’accordo con voi. Ma perché non le chiediamo se è pentita? Non… non la interroghiamo? Interroghiamola, chiediamole, interroghiamola, che so io? Ma aveva fame la Civetta, quando rubava? E’ sempre stata buona, forse non era lei la ladra e cattiva? Forse, forse… Signora presidente, signora mia, la interroghi, la interroghi. Senta se è pentita, almeno…>>. Poi riprese posizione sul suo ramo come uno appisolato o uno smemorato.

Un gran brusio si alzò là nella Ripa. Qualche rapace strillò: <<Venduto. Che dici? Odio, isolamento e maledizione eterna. Questo ci vuole!>

<<Silenziò, silenzio…, – squillò su tutti la voce argentina della presidente -. Ha ragione anche l’Allocco. Chiudiamo qui la discussione. Ho capito. Mettiamo ai voti le proposte che sono venute fuori dalla dibattito. Ma prima diamo la possibilità alla Civetta di far valere le sue ragioni, se le ha. Di discolparsi, eventualmente…>>. 

Un brusio ostile, cattivo si alzò per l’aere e si alzò di volume, tanto che si percepivano chiari motti di ribellione, di disprezzo verso la moderatrice.

<<Silenzio! Zitti tutti. Silenzio, a questo punto decido io e basta. – Un rigurgito di orgoglio colpì la Capinera, che tirò fuori una grinta inaspettata -. Vogliamo sentir la voce della colpevole, se lo è… Come chiede l’Allocco. La Civetta si avvicini all’appoggio della presidenza>>.

La Civetta s’appropinquò con un volo strambo, rumoroso e incerto e si posò a due ali di distanza, come comandato.

<<Ora, signora imputata e gentile Civetta, ha sentito le accuse, gravi: sono veritiere? Le ricordo che più testimoni l’hanno vista rubare>>.

<<Nobile presidente, è tutto vero. Quasi…, all’apparenza>>.

<<Come sarebbe a dire? E’ vero o non è vero? Non si prenda gioco di questa autorità, né dei suoi amici di una volta>>, la interruppe la Capinera. 

<<Veramente, quando i miei vicini di notte andavano a caccia, ad uccidere il prossimo, a mangiarsi un altro essere compagno di dolori e di traversie in questa vita, io mi alzavo in volo e andavo a visitare i loro nidi, dei miei amici, sì, ma così per solidarietà, per vedere se vi fosse qualche piccolo bisognoso di assistenza e compagnia. Insomma, per vedere se i loro nidi fossero a posto, le uova da covare ancora calde, a controllare che nessuno rompesse quei nidi. Io, però, li trovavo sempre benfatti e vuoti. Allora me ne tornavo indietro. Dunque io non ho mai rubato nulla>>.

A queste affermazioni, qualcuno dei convenuti perse la pazienza e la interruppe: <<Falsa, spergiura. Non si possono sentire queste menzogne. Lei nemmeno si pente. Amici, linciamola qui sul posto. Subito>>.

La Civetta, vista la mala parata, si dileguò e si nascose lontano. Ma pure la Capinera, di fronte a tanta ribellione e violenza, si mise al riparo. Gli assalitori cascarono a vuoto sul sasso della presidenza. Penne e zaffi di piume arruffati, graffiati dai loro corpi volarono per aria. L’ira li aveva accecati e quei pennuti, che si sentirono umiliati ed offesi, colpirono alla cieca, si colpirono tra loro. Non sentirono dolore, ma sentirono la voce dell’Allocco, che, come svegliato da un brutto sogno, alla vista di quello sfacelo, ululò fortissimo, tanto da sopraffare le voci e il trambusto della lotta: 

<<Bestie incivili, indisciplinate. Amici violenti e terribili, forse avete ragione a ribellarvi alla spudoratezza della Civetta, ma ora, calma! Richiamiamo al suo posto la Capinera, che avete spaventata con la vostra esuberanza o violenza. La presidente, proprio la presidente, dico, concluda la riunione. La Capinera, torni al suo posto e concluda il suo pensiero. Insomma dica l’opinione che s’è fatta sulla vicenda, sulla Civetta>>. La Capinera tornò ad insediarsi sul sasso assegnatole:

<<Le cose non si mettono bene. E’ necessario chiudere, perché gli animi non sono sereni. D’altra parte la Civetta è stata sfrontata, vi ha messo del suo per esasperarli. Io, dunque, direi di concludere così: tutti i rapaci, gli amici, i ricorrenti, i giudicanti non hanno più motivo di restare qui alla Ripa, in quanto il destino ve li ha estromessi naturalmente, oggi è uno spazio limitato, stretto. M’è parso di capire. Tutti emigreranno nella Ripa di fronte, a Cellena, alle Rocchette, nella Valle dell’Albegna: avranno uno spazio infinito per nidificare, per dormire, per cacciare. La Civetta è pure un rapace e, se non vi dovranno rimanere gli amici qui alla Ripa, non vi potrà rimanere nemmeno lei. Se non vi saranno gli altri rapaci, pure la Civetta finirà la sua permanenza alla Ripa. 

Di conseguenza non avrà più motivo di rubare o far danni, di distruggere e dire il falso qui. E questo valga per una parte della pena. 

Infine una seconda considerazione, amici. Con tutto questo chiasso, udite le tante voci circa la Civetta: ha fatto danni, ha portato castighi e disgrazie nella famiglie dei vicini; ritengo che debba avere un ostracismo naturale da tutto il vicinato e dalla valle intera. Se la volevate punire, con le notizie divulgate oggi, l’avete fatto. Non soltanto, ma d’ora in poi nessuno in questa valle ascolterà più tranquillamente il suo canto e sopporterà la sua presenza. La Civetta sarà l’uccello del malaugurio, sarà assimilata ad una fattucchiera maldestra che ammorba tutti, anche gli esseri più cari… Così ho deciso. Il consiglio è concluso. La seduta è tolta>>.

In effetti il richiamo della Civetta: “Tutto mio, tutto mio” come pareva risuonare nella valle durante la notte, da allora, convintamente, fu sentito come presagio di guai. Ogni essere vivente nella Ripa e nella Valle si allontanò da lei e preparò scongiuri.

39 – La fonte della Ripa e i rapaci che l’abitavano

38 – LA RIVOLTA DEGLI ANIMALI

Tanti animali erano allo sconforto. Erano caduti alla rinfusa nelle pagine del nostro autore, incolpevoli ed inconsapevoli. Questi, secondo l’ispirazione, senza soppesare la sensibilità delle bestiole, s’era messo a scrivere di loro e dei loro fatti così come gli veniva. Una vicenda dopo l’altra, una storia dopo l’altra, una favola dopo l’altra. Mai aveva pensato di offendere qualcuno, mai avrebbe pensato di intaccare la sensibilità di qualcuno scrivendo, ascoltando soltanto il suo io. 

Male! Dopo l’ultimo episodio, dopo l’ultima storia qualcuno degli animali coinvolti venne a conoscenza del progetto dell’autore, del volume raccolto da costui, cui avevano dato fiducia e confidenza, senza consenso. 

Gli animali cominciarono a consultarsi tra di loro, a parlarne sempre più apertamente, a lamentarsi, fino che qualcuno pensò di interpellare un legale.

Ah, questi fu chiaro. Era il pappagallo: ”No, signori miei! Se qualcuno usa la vostra immagine, vi consulta, poi usa per affari suoi i vostri pensieri a vostra insaputa, commette reato di appropriazione e sfruttamento indebito di certi vostri diritti personali, inalienabili: diritto all’immagine, diritto alla esclusiva del pensiero. Diritti che non si sanano e non si espropriano nemmeno pagando il disturbo. Dunque, se qualcuno lo ha fatto, ha commesso un abuso. Lo sapevate, signori miei?”

“No”, ripose chi si trovava nei pressi del legale. Era una cecca (la gazza, ndr). “Allora che dobbiamo fare, dato che il nostro autore ci ha sfruttato, per non dire truffato? Ci ha messo in prima pagina senza compenso e senza chiederci scusa o la liberatoria, fino ad oggi?”

“Male, signori miei. Male per lui che non si è informato, che ha abusato della sua penna per scrivere senza dirvi che aveva scritto, senza chiarirvi come vi aveva trattato sul pezzo, senza proporvi una compensazione…”, sentenziò il pappagallo.

“Ah, ora gliela faccio vedere io!” entrò subito in argomento la volpe. “Proprio a me, mi ha trattato sempre come una ladra, una poco di bono, una che viene a patti una volta col padrone, una volta con le galline, il mio alimento preferito… Arivoglio il mio onore, costi quel che costi!”.

“Groàh! A me, mi ha messo in competizione con un bove. Che dovrei chiedere io?”, confessò mesto il rospo. “Ha spifferato le mie debolezze a destra e a manca. Ha sbeffeggiato e irriso la mia voglia di crescere e di progredire. Lui dice: mania di grandezza! A me! Una figura di cacca… Mi renda il mio prestigio, puttana troia!”

“Ehnnò, eh! Chi mi ha cercato. Io sono troia normale, di famiglia, la vera, ma non puttana… Da me si passa all’incasso una volta all’anno, quando lo dice la natura”.

“Groàh! E’ un modo di dire. Senza offesa. Si fa per dire, non stare a guardar il pelo. Le puttane da noi non esistono. Sono cose umane, quelle. Lo so. Almeno in tal frangente tra animali ci rispettiamo: noi ci accoppiamo o con uno per sempre o con uno alla volta. Su questo tema hai ragione, scusa. Non hai ragione, volpe mia, quando usi animali uguali o più piccoli di te per fare pranzo e cena…”, rimarcò le parole il rospo.

“Va bene. Ho capito”, disse l’avvocato, smorzando la discussione vana. “Stiamo andando fuori tema. Parliamo di un libro, di un autore che vi scrive addosso, che si inventa favole a vostro discapito. Che altra lagnanza potete rappresentarmi? Quale fattispecie potete raccontarmi come offensiva? C’è qualcuno che si sente offeso dall’autore e oggi va in giro con la coda tra le gambe dalla vergogna?”.

“Veramente qualche altro ci sarebbe”, accennò timido l’ermellino. “A me in verità non ha ancora preso di mira, ma se un domani si ricordasse che io ho un bel mantello, che sono elegante più di altri, che vado in giro e mi pavoneggio con la mia coda soffice e svolazzante, come mi potrei premunire?…”

“Lascia fare i pavoni. Fatti gli affari tuoi e camperai molto di più. Non sei d’accordo? Paga e ricorri contro. Di mantello e di coda pari a noi pavoni non ne possono sfoggiare altri al mondo. Quindi vuoi dire che noi pavoneggiamo? Noi siamo i pavoni e basta! Non ci nominate fuori luogo”.

“Guarda che per rispetto o no, per dimenticanza o no, io non ce l’avevo con te. Stamani tutti con la coda di paglia, qui. Tutti permalosi. Vogliamo cambiare discorso e mettersi d’accordo contro questo autore che campa a spese nostre?”, riprese l’ermellino. “Vogliamo rivendicare il nostro diritto a campare come ci pare o no? A me non mi ha ancora toccato, dicevo, ma se si tratta di garantire i diritti a tutti, io ci sto…” 

Il fringuello che non aveva coraggio di avvicinarsi troppo al “seggio” dell’avocato per non trovarsi vicino al falco, colse l’attimo e s’intromise con un gorgheggio che zittì tutti, indusse tutti ad ascoltarlo: “Signori, che io ho una bella voce non c’era bisogno di scriverlo. Lo sanno tutti. Se io le devo dire quattro a qualcuno, è certo che quello mi sente, ma per solidarietà, per amicizia, per zittire uno che non le sa nemmeno cantare, sono pronto a dare il mio contributo. Gli canterò di starsene zitto d’ora in poi…”

Intanto s’erano messi in coda a presentare le loro lagnanze la lucertola, la rana, la mantide religiosa, il camaleonte, la farfalla, i cervi, il gatto, il merlo, due galline ed una processione di tanti altri animali, quali mogi mogi, quali ad orecchie dritte interessati all’argomento del giorno. 

Mentre l’inutile discussione portava avanti tali quisquiglie, in lontananza, all’orizzonte apparve la giraffa che avanzava portando appeso al collo un cartello con scritto: “abbasso gli scrittori – rispetto per gli animali – vogliamo le scuse e vogliamo i soldi”, seguita da un corteo di altre bestie e insetti diversi.

Nel grande spiazzo aperto davanti al trespolo dell’avvocato, e davanti al gruppo, che s’era formato in precedenza, si fermarono tutti e si disposero in circolo come per ascoltare chi ne sapeva di più. Uno stormo di cornacchie, che s’era piazzato sull’albero più alto lì vicino, alzò la voce gracidando a squarciagola: “Silenzio!… Ascoltate, bestie vituperate e sfruttate. Ora avremo la risposta da chi ne sa più di noi… Ci insegnerà come dobbiamo comportarci. È nel nostro interesse. Silenzio! Zitti tutti!… La parola al pappagallo “, ordinò quella con il gracidare più acuto.

Il pappagallo, chiamato in causa direttamente, si schiarì la voce e con un tono aulico, a dir poco, cominciò la sua retorica elucubrazione. Tirò fuori una sentenza dopo l’altra, concludendo: “Insomma, amici miei, io ve l’ho detto e ripetuto. Questo libro a spese vostre, sulla vostra pelle, sulle vostre debolezze non sa da fare per nessun motivo, così come ho capito dai vostri intendimenti. E questo lo dirò io direttamente all’interessato a voce alta, prima di tutto. Ma se qualcuno non si fida o non si sente garantito, o addirittura vuole un risarcimento, perché di speculazione culturale si tratta, ebbene: io dico e sono disponibile, per quelli che lo desiderano e che vogliono, a proseguire con un’azione legale davanti al giudice supremo. Io li assisterò dall’inizio alla fine dell’azione, fino al recupero delle somme stabilite a risarcimento. A me non dovete nulla per il mio lavoro e per il mio prolungato impegno, – prolungato perché sappiate che ci vorranno molte sedute, molti testimoni e molto tempo -. A me dovete soltanto il venti per cento di quanto incassate a risarcimento a questione finita. Se siete d’accordo e chi è d’accordo, passi dalla mia segretaria, lasci i suoi dati: nome, cognome, caratteristiche personali, luogo di abituale dimora… ed una piccola cauzione per le prime carte bollate, che non servono a me, badate bene, ma al giudice, allo Stato…”

Un brusio in toni diversi si diffuse ora morbido, ora più acuto nell’aere sopra l’assemblea, sugli astanti, finché un papera pettegola prese la parola e con voce squillante chiese: “E a quanto ammonterebbe questa piccola cauzione, avvocato?”

“Ma, ora su due zampe non saprei. Non ho calcolato di preciso. Diciamo, facciamo cento penne…”

“E per chi non c’ha le penne?”

“Che poi sarebbero cento paoli…”, concluse il pappagallo.

“Che, sei rimasto al medioevo. Ma quant’è che non fai una causa,” urlò la massa confusa . E chi ne disse una, chi ne aggiunse un’altra.

Insomma da uno all’altro si spalleggiarono in molti contro l’avvocato, che pretendeva la parcella, sì che alla fine tutti insieme si ribellarono contro quello che li doveva difendere.

“Non vogliono essere presenti nella raccolta, ma non vogliamo nemmeno essere presi per il collo”, precisò il gatto. 

“Dobbiamo essere difesi per i nostri diritti, non per i soldi. Altrimenti tu, pappagallo, che ci stai a fare lì, nella categoria degli animali senza la parola, secondo il creato?”, urlò con voce baritonale e severa il bove.

Insomma le ragioni di chi non voleva pagare erano troppe ed ognuna diversa dall’altra. L’avvocato non sapeva a chi dare retta, quale ragione prendere a difendere per mostrare che anche lui sapeva fare qualcosa. Si sentiva scoraggiato e deluso. Qualcuno in fondo all’assemblea, borbottando, si girò indietro per tornare sui suoi passi: “Tanto qui non si conclude niente. Ognuno fa per gli affari suoi, purché ci sia guadagno…”. Altri seguirono i primi e lasciarono il piazzale, che presto si vuotò. Ogni animale riprese la sua strada per il bosco e brontolava e imprecava chi gli aveva fatto perdere tempo: “E’ tutto inutile. Non ci metteremo mai d’accordo su nulla. Troppe teste, troppe idee, troppi ingordi…”

Il pappagallo si trovò solo sul suo trespolo, un ramo dominante il piazzale e gracchiò sconsolato: “Va a far del bene agli ignoranti. Per loro le cose piovono dal cielo senza fatica. Non sanno il fiato che bisogna tirar fuori per farsi sentire, perfino per dimostrare i propri diritti…”.

L’ultima cornacchia, che era rimasta appiccata sul ramo dell’albero più alto, si mise a ridacchiare: “Avvocato, ecco i tuoi clienti. Erano molti, ma siamo rimasti soli. Forse non li hai convinti. L’autore aveva ragione”.

38 – LA RIVOLTA DEGLI ANIMALI

37 – C’ERA UNA VOLTA… SGRULLA

 

Sgrulla era uno scialacotto caduto dal nido; le penne appena accennate lasciavano ampi spazi di pelle implumi. Stava accovacciato sotto un’auto: era poco sveglio, si vedeva, ma i gatti l’avevano risparmiato. O l’avevano rifiutato? Non era chiaro.
Un uomo lo prese in mano e lo portò in casa. “Vediamo se campa e quanto campa”, pensò. I figli gli furono subito addosso a vezzeggiarlo, a strapazzarlo passandoselo da una mano all’altra. Fu opportuna qualche raccomandazione. Poi, superato il momento della novità, s’acquietò anche la burrasca intorno al povero diseredato.
Dunque, Sgrulla era un rifiuto della società dei pennuti?
La domanda era di rigore. Sì, perché, per quel brutto vizio di sgrullare il becco ogni pochi istanti – da qui il nome -, nemmeno la mamma l’aveva voluto nel nido vicino ai suoi fratelli. Era come se avesse un raffreddore perenne. Per la madre era un menomato. Da lei fu ripudiato a pochi giorni dalla nascita, ma non v’era stato orfanotrofio di pennuti che l’avesse accolto. Era caduto da un cipresso, aveva svolazzato fin sotto un’auto, dove nemmeno i gatti di città l’avevano attaccato.
E sì che di gatti randagi ve n’erano nei paraggi. Insomma aspettava un uomo per farsi portare in salvo, quello stupido merlo. Ma anche all’uomo ed ai suoi, quando presero cognizione del maleducato vizietto, apparve un merlo antipatico, da trattare con le molle.
L’uomo ebbe pietà e lo tenne in casa, comunque, in un ambiente decoroso, dentro una gabbia panoramica tutta per lui, coperto sopra e sotto da un nido caldo di stracci. Lo governò. Il merlo, forse per le privazioni arretrate, non si saziava mai. Ingozzava tutto di tutto, dando ampia dimostrazione della sua natura antipatica. Con il vizio di sgrullare spesso il becco sia che mangiasse, sia che bevesse, sia che avesse già ingoiato Sgrulla metteva su un casino intorno a sé nel raggio di tre metri da ridurre casa, pareti, mobili ed oggetti a tiro ad una schifezza, da far pietà. L’uomo provvide adombrando la gabbia di fogli di giornali, ma intorno a lui rimaneva sempre un ambiente poco decoroso a vedersi. Oltre tutto la bestiola si sgrullava col soffio: “Xsì, xsiìì”, accompagnato dal rumore che si sentiva da lontano. Per un verso si poteva così controllare che era viva, è vero, ma quel rumore non faceva piacere per niente all’udirsi.
L’uomo lo imbeccava e Sgrulla cresceva a vista d’occhio. Insomma presto lo scialacotto s’era ripreso dall’abbandono ed aveva fatto progressi inattesi, escluso togliersi lo strano vizio. Presto imparò a magiare da solo. Gli piacevano molto le ciliegie. Non gliel’avessero mai date. Col suo sgrullo imbrattò di rosso spiaccicato la gabbia, il pavimento, i muri dove arrivava il raggio della sua azione.
Conseguita l’autonomia nel mangiare, aveva pure imparato a comunicare, ad intendere. Imparò a capire l’uomo, che lo interrogava: gli rispondeva. A volte provava a cantare e parlare insieme, ma era stonato. In casa si concluse che ci si sarebbe cavato poco.
“Sgrulla, possibile che non ti togli ‘sto brutto vizio. Sgrulla, fai schifo!”
“Che vizio? Questa è la mia salvezza, non lo sapete?”
“Che vuoi dire? Che salvezza?”, chiese l’uomo.
“E’ per questo vizio che sono stato ripudiato. Mia madre smise subito di governarmi dopo il primo giorno, salvo poi buttarmi fuori dal nido morto di fame: madre degenere!”.
“Effettivamente ci vuole un bel coraggio da parte di una madre buttare via un figlio infelice. D’altro canto non è nemmeno bello a sentire che un figlio parla così della madre, – commentò l’uomo -. Ma perché la tua salvezza?
“Lei viaggiava sempre. Ad ogni ritorno al nido io mi buttavo avanti in mezzo ai miei fratelli, ma lei riusciva sempre a distinguermi e a scansarmi dall’imbeccata. Che le avevo fatto di male? Piangevo, ero sempre a testa dritta, sopra gli altri e con il becco aperto, anche quando i fratelli dormivano. Mia madre aveva deciso di buttarmi e fu irremovibile. Ecco, la mia salvezza sei tu, l’uomo intelligente e di cuore”.
“Insomma, io ho avuto pietà, ti ho raccolto, ti darò tempo, ma perché tu ora non ti sforzi a guarire dal tuo vizio? Sgrulla, fai schifo, sforzati! Così hai condannato noi. Migliorati altrimenti ti ributterò ai gatti”.
L’uomo non seppe mai se il merlo si sia sforzato. Sta di fatto che Sgrulla non perse il suo vizio. Seguitò ad imbrattare quanto sostava nel suo raggio d’azione, sia quando beveva che quando mangiava.
In casa si stancarono di pulire le sue sozzerie e il suo malcostume. A volte ricriminavano il loro atto di pietà nei confronti della bestiola.
“Sgrulla, è arrivata l’ora che ti cerchi una casa nuova, una casa per conto tuo. Ora sei grande…”, un giorno gli comunicò l’uomo.
“Veramente io stavo bene con voi. Ma non vorrei essere troppo pesante da sopportare, se avete deciso di buttarmi fuori di casa…”.
“Sgrulla, in quanto al vizio, te l’ho detto in tutti modi, non sei riuscito a fare un passo per correggerti, però è giunta l’ora che tu torni libero, per il tuo bene. Imparerai a cercare da mangiare e da bere da solo. A primavera sarà l’ora che ti cerchi una merla giovane da aggallare. Poi ti farai una famiglia ed educherai i figli tuoi. Vedrai com’è dura…”.
“Non ho molta fiducia che una merla mi accetti, visti i precedenti. Eppure mi sentirei portato ad essere amorevole con tutti. Ho imparato da voi. Mi sforzerò ancora ad eliminare i miei difetti…”.
Una mattina Sgrulla fu invitato sulla spalla del suo salvatore. “Andiamo…”, gli disse questi e prese la direzione dell’orto.
Giunto all’orto l’uomo si sedette su un ceppo e gli mostrò la natura libera intorno. Davanti a loro v’era un laghetto, poco più che una pozzanghera maltenuta. Per chi non l’aveva mai vista tanta acqua fresca, era un richiamo, un invito a farsi un bagno ristoratore: “Che fai, ci pensi? Buttati e divertiti – lo incitò l’uomo -. L’acqua è tua, ti aspetta. Vedi come è bella la libertà?”
“Ma davvero dici? Mi posso lavare tutto insieme come non ho mai fatto?”
”Sì, è un ordine. Vai, lavati, merlo stupido…”.
Sgrulla si buttò con un solo svolazzo. Cominciò a bagnarsi ai bordi della grande pozza. Entrò sempre più dentro, fece mille abluzioni finché fu tutto mollo. Era tornato piccolo, un pulcino con le penne tutte appiccicate. Era diventato più brutto di prima. Poi tentò di tornare sulla spalla dell’uomo.
“Sgrulla, no, vattene. Mi bagni tutto d’acqua sporca. Stai più là. Ora hai capito cos’è la libertà? Quando puoi scegliere il buono oppure no? Ma sappi che il mondo non è tutto bello e buono come lo vedi qui.”
“Andiamo bene! non finirò mai di stare attento?” S’interrogò preoccupato il pennuto.
“Ascolta che mi spiego meglio. Questo orto è mio e qui potresti fare come ti pare, ma… la vita di un merlo stupido potrebbe pure finire qui, perché qui intorno v’è un bosco – lo vedi?-, dove sono a riparo tanti altri animali, dove d’inverno fa freddo, d’estate fa caldo… Gli altri animali non tutti saranno amici tuoi. Alcuni, quando avranno fame, mangeranno gli altri, anche i merli stupidi. Sveglio, dunque! Dormi su due piedi, sempre pronto a volare, lontano da chi si arrampica, nascosto dalle fronte per chi vede dall’alto. Io te l’ho detto. Ora vado. Domani tornerò a trovarti, ma non per cantare al funerale che finora ti ho evitato.” Fatte queste ultime raccomandazioni, l’uomo si commosse e lo lasciò solo.
“Lo sapevo, lo sentivo che mi volevi bene, anche se non facevo nulla per meritarmelo. Torna presto e se avrò imparato a cantare e fischiare come gli altri merli, domani canterò con te la libertà che fino oggi non conoscevo. Ciao”, chiuse il merlo.
Il giorno dopo l’uomo tornò a far visita all’amico: non era all’appuntamento. Cominciò a chiamarlo, a fischiare: “Sgrulla, Sgrulla, dove sei? Sgrulla, vieni qui.”
Guardò in giro, poi posò gli occhi vicino, nell’orto, sulle piante li intorno e constatò che tutti gli alberi da frutto erano carichi di bocci: il melo, il pesco, il pero, il nespolo, i ciliegi, perfino le rose, tutti pronti a fiorire. “Ma come? È fredda la stagione. È inverno, perché germogliano e fioriscono ora le mie piante? Siamo fuori stagione, i frutti non allegheranno. Come è strana la natura. Perché il miei sì e gli altri no? Però che meraviglia! Soltanto il mio orto è fiorito. Vuoi vedere che Sgrulla ha i piedi magici?”, si compiacque l’uomo.
Erano fioriti tutti rami degli alberi dove Sgrulla aveva posato i piedi. Da lì si poteva intuire che Sgrulla aveva svolazzato tutto il giorno da un ramo all’altro nell’orto del suo salvatore e non s’era allontanato da lì nemmeno la notte, quando lo scorse una civetta.

 

 

37 – C’ERA UNA VOLTA… SGRULLA

36 – L’UOVO DI LEGNO

In mezzo a tante cosuccie, cose di cucito, per i rammendi, in mezzo ai rocchetti di refe nero e bianco, in mezzo ai gomitoli, agli aghi di tutte le misure, alle forbici la nonna teneva un uovo marrone quasi nero, di legno leggero, con la superficie perfettamente liscia, lucida, ma dura.foto-copertina-voli.jpg

L’uovo serviva per rammendare le calze di tutti i tipi. A quei tempi le calze erano di lana grossa, fatte a maglia, bianche o colorate per le donne, nere o marroni per gli uomini, ma con la soletta bianca.

Di calze per gli uomini, che lavoravano i campi con le scarpe grosse, di cuoio, ce ne volevano tante paia, anche se non venivano cambiate tutte le sere. Ce ne volevano tante, perché si consumavano tutte nel tallone e nella punta del ditone a causa dei molti passi necessari a girare quel podere nascosto tra i boschi della Contea!

La nonna, dopo il bucato, ripassava le calze dei suoi uomini ad una ad una, le ispezionava: quelle rotte le separava dalle buone per rammendarle. A questo punto della cernita lei tirava fuori dal cassetto del tavolino il suo uovo di legno, l’ago ed il gomitolo di lana ed iniziava il lavoro di rammendo, che durava tutto il pomeriggio. Se era d’estate, si metteva all’ombra della grande ficaia nata davanti casa e con pazienza scrutava, rigirava ogni calza, l’uovo, il filo e l’ago. Trovava il buco e rammendava, rammendava… Passava quelle due orette più tranquille della giornata a cucire ed a pensare, sola, in compagnia di tutta la vita che le girava intorno in silenzio: il marito a riposare – la mattina si doveva alzare alle quattro -, i figli dietro a chissà quale faccenda, i nipotini calmi e tranquilli sotto il controllo… degli animali da cortile.

In quel momento la nonna poteva allentare l’attenzione, senza mai isolarsi del tutto dal mondo. Era il momento che poteva dimenticare la vita del podere. Pensava, canticchiava qualche nenia, parlottava, forse brontolava. Ma andava avanti con la sua faccenda. Tra l’altro nessuno le aveva mai detto che quell’uovo liscio e leggero aveva un’anima. Eppure non era di gallina. Non era vivo. Non sarebbe mai nato e nemmeno era “bogliolo”. Ma parlava… Addirittura. Proprio così: nonna non s’era mai accorta che quell’uovo chiacchierava e, se lo interrogava, rispondeva.

Un giorno di sole e di caldo, forse un po’ insonnolita nei movimenti dell’arte rallentati, mentre lo girava dal buco di un tallone al buco di un ditone, ebbe un attimo di incertezza e con l’ago lo bucò.

Lo bucò tanto per dire. L’uovo era di legno. L’ago impuntò nella sua superficie e scivolò per andare ad infilarsi nel dito dell’altra mano di lei.

“Accidenti… che diavolo mi fai, tradisci? Ora insanguino tutto. Devo rilavare la calza… Sei cocciuto di testa”.

“Nonna, stati attenta, non dormire. Io sono sempre stato “duro” così!”

“Come? Rispondi, culo tondo? Vedi che non dormo? T’ho sentito”.

“Sì, m’hai bucato e ti sei bucata, ma la colpa non è mia, ti volevo dire. T’eri appisolata con l’ago in mano. E l’ago buca…”.

“Lasciamo perdere, quelle erano le calze del mio Amerigo. Sai, lui ormai è un giovanottello. Ci tiene a vestirsi un po’ meglio. Mi sa che punta qualche regazzetta al paese, la domenica. Gli ci vogliono nuove, le calze, altro che rattoppi…”.

“Bene. Giusto. Compragliele nuove, così mi lasci in pace qualche volta e pure tu ti fai un pisolino il pomeriggio d’estate. In santa pace. Ti voglio sentire riposare, anche russare, qualche volta”.

“Sì, riposare. I vecchi perché sono vecchi, i giovani perché hanno da figurare con le ragazze; tutti vorrebbero le calze e il resto nuovo, aggiornato all’ultima moda, i rammendi senza nodi… Ma qui dove si cavano i soldi? Lavoro io dalla mattina alla sera, lavora quel vecchio di mio marito; lavoriamo tutti, eppure si campa a malapena in queste terre magre. Un paio di calze nuove, di cotone per ciascuno, nemmeno  per sogno!”.

“Dì la verità, io una mano te l’ho sempre data a sbrigare le tue faccende, ma oggi ti serve qualcosa di più, vuoi dire. Mi vuoi chiedere di più? Che ti serve?”

“Uovo delle Meraviglie, uovo mio, sei ricco di magia o di soldi? Vedi che ti ho sempre trattato bene ed anche oggi non ti volevo bucare. Meno male che ti ho bucato, almeno parlo con qualcuno…”.

“Sì, ma che ti serve? Ti ho chiesto”.

“Perché, mi puoi dare quel che mi serve? Ma che può uscire di bello e di buono da un uovo di legno? Guarda che in questo momento ti darei tutta la fiducia del mondo. Sono stanca, anche se felice della tua compagnia”.

“Ho capito, nonna mia, sì, dài… Domani sarai ricca. Tutte le carrozze dei Conti, dei Marchesi, dei ricchi passeranno di qui a lasciarti quello che mi ordinerai e a riverirti come una gran dama. In questo podere sarà sempre festa d’ora in poi. A me troverai posto nella vetrina dentro un bicchiere di cristallo e potrai parlarmi ogni volta che mi vedrai. Altro che Cenerentola!…”

“Davvero? Allora vai. Segna: – Mi serve un corpetto nuovo, di velluto, per mio marito. Quello dove attacca l’orologio è tutto consumato. Quando va a far festa non si può guardare. A proposito quattro orologi da taschino per i figli maschi ed uno per collana a mia nuora. Non l’hanno mai avuto e quella ci tiene a non restare indietro. Ha paura che la trascuri come nuora. È gelosa! È proprio gelosa: conta tutto. Ovo mio, fammi fare bella figura, dille che l’ho pensata. Un ricambio per i giorni di festa per i figli lo posso avere?”

“Sì”

“Allora una giacca e pantaloni per ognuno. Segna! Oh, un vestitino completo anche per la nuora, non ti dimenticare. Se no, chi la sente quella! Nei vestiti degli uomini fai trovare in tasca mille lire per uno: andranno al paese domenica e pagheranno da bere a tutti per una volta. Vedrai che figurone faranno! Ci tengono. Questi hanno fatto i soldi al podere, diranno tutti. Oppure, hanno trovato il tesoro della regina di Populonia nascosto sotto il ciocco di scopo nei boschi di Poggiolepre. Ho bisogno di due brocche nuove per la casa, queste ce l’hai? sai dove trovarle?”

“Sì, ma così non diventi ricca né tu, né i tuoi. Per me è fatica sprecata. Non vorresti qualcosa di più prezioso? Per te non hai chiesto nulla?”

“No, non vorrei di più. Se puoi aggiungere un po’ di salute per me, basta. Per la mia famiglia giusto qualcosa per sembrare meno poveri, ma tutti qui devono continuare a lavorare. Fa bene. Arricchisce lo spirito, il cuore, la generosità, l’allegria. È bello vedere i miei uomini cercare un attimo di tempo la sera dopocena per mettersi a cantare tutti insieme, a suonare tutti insieme. Hai visto il mi’ marito come è attaccato alla sua chitarra? E poi i clarini dei figli, che bel suono! Hai sentito il più piccolo come soffia le musichette da quell’ocarina? Ecco penso che a noi serve trovare tempo per questa allegria e per questa armonia in casa. Basta… Se me li farai ricchissimi, ognuno si comprerà villa e carrozze e sparirà.

“Bene, questo non è facile, la serenità in famiglia, ma sarà fatto. Però sappi che stai rinunciando alla carrozza da Cenerentola, ai vestiti fiorati e ricamati. Forse non mi credi tanto potente? Non hai fiducia nelle promesse di un uovo di legno?”

“Oh, sì ho tanta fiducia, troppa. Ma è meglio non esagerare. Non vorrei che si avverasse tanto benessere, tanta ricchezza, e tanta sgargianza addosso a me ed ai miei. Andrebbe in rovina la nostra semplicità, il fattore ci odierebbe…” .

“Me l’hai detto e ripetuto. Ho capito. Ma io, qualora fossi stato bucato in servizio e, se avesse preso aria il mio spirito, come punizione ho l’obbligo di risarcire, arricchire il mio padrone. Tu, nonna mia, non puoi rinunciare all’occasione. Quindi io domani alla stessa ora farò passare da qui davanti una carrozza tempestata di brillanti, tirata da otto cavalli. Sarà una visita silenziosa che, se tu la vedrai e la riconoscerai, dovrai salire e scaricare tutte le ricchezze che vorrai, insieme a tutto quello che hai già chiesto…”.

“Sono contentissima. Tutti creperanno d’invidia. Penseranno che lasceremo il podere e ci compreremo una casetta nuova… Ci verranno incontro per aiutarci a traslocare…”.

Il giorno seguente la nonna riprese la postazione sotto la ficaia, riprese in mano l’uovo, le calze, l’ago e il filo. Non pensò all’appuntamento. Serena si mise  a lavoro e serenamente si addormentò. Sognò ogni genere di ricchezza profumata e appariscente, una musica dolce di clarini, di ocarine e di chitarre pizzicate.

Forse passarono di lì anche i cavalli, forse passò pure la carrozza di brillanti, ma nessuno la volle disturbare tanto era distesa nel suo pisolino. Nessuno la svegliò, tanto meno l’uovo che se ne stava stretto al sicuro nella sua mano.

La nonna, qualche giorno dopo, quando si ricordò delle promesse dell’uovo, capì che la serenità di quel giorno, era stato il dono, la sua ricchezza.

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36 – L’UOVO DI LEGNO

35 – Il mago e la fata

 

Tra i bagagli di Chiara, sistemati alla rinfusa nella cameretta, vidi carrozze, castelli, bambole, vestitini di barbie, bestie e bestiole di plastica, poi c’erano tutte quelle ragazze con le ali, dalle gambe secche, asciutte, e altri personaggi usciti dalla fantasia commerciale, tutti oggetti coloratissimi.

In disparte impermalito, un mago. Alto, slanciato, un cappello nero a tubo in testa, una giacca verde dal taglio strano con un fiocco voluminoso sul bavero e con due tasche spampanate, piene di qualcosa poco chiaro, aveva sotto pantaloni neri e scarpe lunghe ai piedi. Tutto rigorosamente di plastica. Di fronte a lui con altrettanta eleganza e consistenza stava ritta, bella e giovane, una fata dai capelli d’oro fluenti, di plastica, raccolti da una copricapo a punta, azzurro, macchiato di stelle d’argento; era vestita di un abito lungo, azzurro per metà, velato d’organza, stretto ai fianchi sottili. La fata teneva in mano il simbolo del suo ruolo: la bacchetta con la stella scintillante e prodigiosa, utile in molte circostanze della vita.

I due si guardavano di traverso. I loro sguardi erano fissi, ma di traverso: si odiavano senza saperlo e senza volerlo.

Un giorno Chiara decise di farli sposare: erano belli, vicini di scatola, come tutti gli animali domestici e della foresta, del resto. Si dovevano amare per forza. Mettendo su famiglia sarebbero nati altri maghi e fate; così i moltissimi ostacoli della vita sarebbero stati facilmente risolti: ovunque si sarebbero trovati un mago od una fata pronti a prestare aiuto alla gente.

“Buongiorno, signora fata, come va oggi?”

“Oh, buongiorno, signor mago, sono lieta d’incontrarvi. Io sto bene e la mia giornata sarà più lieta, oggi, dopo il vostro saluto”.

“Vogliamo fare due passi insieme? Se non oso troppo, vi porgo il mio braccio. Passeggeremo e parleremo, come se la nostra amicizia durasse da sempre”.

“Grazie. Io sarò contenta di starvi accanto. Andiamo,” mentiva un po’ la fata; anzi, mentivano tutti e due.

“Allora che dite di questa bellissima giornata, mia carissima fata? Il cielo l’ha mandata apposta per noi. È un auspicio di tanta felicità”.

“Felicità è una santa parola. Riempie la bocca ed il cuore. Siete voi felice, signor mago, amico mio?”

“Sono felice a volte sì a volte no. Oggi, da che vi ho visto, sono molto felice e vorrei condividere con voi, mia dolce fata, quello che sento nel cuore”.

“Grazie! Grazie della compagnia e dei complimenti…”

“Io sento qualcosa dentro di me che mi spinge ad amare voi e la vostra bellezza. Voi potreste ricambiarmi?”

“Ho qualcosa anch’io nel cuore riservato a voi. Penso di ricambiare, se il vostro slancio sarà per sempre”, concluse la fata.

Intanto i due, con passo grazioso e leggero, s’incamminarono lucidi nei loro vestiti, prendendosi a braccetto. Erano felici. Il loro sguardo era rivolto ovunque, verso la natura, verso il cielo, quando ripresero la conversazione.

“Sentite, caro mago, se sarà un amore duraturo, come faremo con i nostri poteri?”

“Non capisco, mia bella fata, quali problemi vi assillano?”

“Sì, perché, se io vi amerò, non voglio che i vostri trucchi, i vostri imbrogli contaminino le mie opere di bontà e di meraviglia… Mettiamoci d’accordo prima, subito”.

“Mia dolce fata, i nostri primi passi insieme non partono con il piede giusto, se già pensate al mio lavoro come un imbroglio. Io trasformo, sublimo le cose che gli uomini usano e di cui hanno bisogno; indovino, aiuto la fatica di chi è mio amico, contrasto chi non mi stima…”.

“Ma volete mettere, mio amabile. Io do vita a ciò che non c’è e non esiste. Con me appare e scompare ciò che d’impalpabile esiste, soprattutto dentro gli animi ben disposti. Le cose toccate da me rendono felici…”.

“Belle cose mi dite, mia cara, come se io non producessi di più e fatti più sconvolgenti. Pensate soltanto a quando la mia arte fa sparire castelli e fantasmi e fa apparire eserciti, aiuti militari ed economici per i miei protetti. Muta situazioni da povertà a ricchezza, imbandisce tavole apparecchiate per chi ha fame…”

“Io non uso trucchi come voi. Io converto i cuori e li rendo felici dopo che mi abbiano dimostrato il bisogno e la volontà di esserlo. Non mi credete? Non credete che il mio potere è più nobile del vostro?”

“Oh, io credo a tutto di voi. Credo che io sono rozzo di fronte al vostro animo limpido, che voi rendete felici tutti i buoni, mentre io mi perdo in impiastri e chiacchiere. Per questo ho deciso di amarvi. Basta che chiudiamo qui l’ostentazione delle nostre abilità…”.

La conversazione aveva preso subito una brutta piega, che li avrebbe portati in un vicolo cieco, prima che a manifestazioni d’amore. I due se n’accorsero e pensarono di riprendersi.

“Mi pare che i nostri discorsi ci portino lontano, fuori dalle nostre aspirazioni iniziali – rifletté la fata ad alta voce –, parliamo di noi, dei nostri sentimenti. Per il lavoro ci metteremo d’accordo. Nobile mago, potreste amarmi davvero?”

“Sono qui soltanto per questo, ho detto, mia incantevole fata. Io e voi metteremo su famiglia e sarà una famiglia piena di maghi e di fate, che arricchiranno il mondo dei bambini e degli uomini. Il nostro sarà un amore senza confini. Anzi, quando cominciamo?”

“Come correte, mago mio! Aspettate un po’: dobbiamo prima imparare a conoscersi meglio, dobbiamo avere il consenso della nostra padroncina, la nostra guida”.

“Se è così, aspetto. Per voi aspetto. Ma la cosa pare complicarsi. È più facile compiere una magia, oggigiorno, che sposare una fata…”

“Nella vita mai correre, nell’amore è necessario andare piano: vedrete, si sistemerà tutto come per incanto, docile e amabile mago”.

“Sì, io invece ho deciso di amarvi subito. Vi abbramagherò. Farò una magia per cui subito saremo marito e moglie con la testimonianza della sola nostra guida, senza andare troppo per le lunghe…”

“Se ci riuscirete, mi lascerò amare. Ma sappiate che vi opporrò tutta la mia forza fatata…”

La fata non finì la sua risposta, che vide avvicinarsi un cavallo bigio trainante un elegante calesse, poi vestiti da sposa e servi pronti a riverirla:

“Inginocchiatevi, amore mio. Ecco, accettate i miei doni di nozze, ecco il mio anello. Questa è la servitù che vi acconcerà per la cerimonia”, e con le braccia solcò il cielo di segni intrigati e strani.

“No, amabile mago. Non va bene così, – rispose la fata di fronte a quella magica prepotenza messa in campo all’istante. – Non era questo che avevo previsto e desiderato per il mio matrimonio. Se tanto presto devo dire di sì a voi, allora voglio qualcosa di più bello e ricco. Voi non mi trattate alla mia altezza… Ecco qui la carrozza bianca ed i miei alati cavalli bianchi che ci condurranno alla cerimonia e nel lungo viaggio di nozze. Ecco qui le damigelle ed i paggi per noi. Ecco gli abiti appropriati degli sposi: un ricchissimo frac per voi. Vedete, il mio è bianchissimo. Rimane solamente un nastro azzurro alla vita. Vi piace il corredo chiuso nelle mie stalle e nei miei guardaroba?”

“Fatato amore, siete stata stupefacente per me. Lasciate almeno che vi possa condurre a casa mia, nella rocca su quel monte celeste. Non conoscevo del tutto le vostre forze sublimi. Mi sento un mago colpito da un incantesimo…”

“Se permettete ancora, amore delizioso, oserei correggervi: sul vostro monte vorrei un castello che svetti nell’azzurro del cielo!”

“E sia come volete, incontentabile principessa!”

“Regina, prego!…”

Chiara a questo punto ritenne utile cambiare stanza. Avvicinò il mago e la fata in unica mano. I due si abbracciarono, guardandosi ancora di traverso come li portava a fare quel collo di plastica: “Ora siete marito e moglie. Litigate senza disturbare i vicini. Andate dove volete, ma non fuori dalle mie scatole e dalla mia stanza. Capito? Che la nonna non vuole giocattoli in giro!”

 

35 – Il mago e la fata