34 – Fonte dell’Acquerella

In un paese aggrappato alle pendici della montagna, in mezzo al bosco, c’è una fonte ricca d’acqua freschissima. I paesani la chiamano l’Acquarella. Oggi è restaurata, risanata, abbellita. La conservano bene, come un bel ricordo ereditato dai tempi passati.

Nei tempi passati forniva acqua a tante famiglie. Le massaie vi si ritrovavano per lavare i panni o per riempire due brocche da portare a casa. Ma era anche il punto di ritrovo per scambiare quattro chiacchiere e qualche pettegolezzo. Gli uomini poi la frequentavano per abbeverare le bestie e per incontrare le donne al pozzo.

Oggi la Fonte dell’Acquarella seguita a versare acqua in abbondanza nel suo catino di pietra, da cui, sempre limpida, viene smistata all’abbeveratoio ed al lavatoio. Nessuno se ne serve, sicché l’acqua quasi incontaminata sborda dal sopravanzo, che scarica nel fosso. Da lì scende a lambire qualche orto più in basso. Se non avesse questo uso, quel bendiddio scorrerebbe nell’indifferenza e senza utilità apparente.

È lungo questo tragitto, però, che continua la vita e la vivacità di un tempo. Non sono gli uomini a sfruttare quella ricchezza, ma gli animali. Sì, perché gli animali ricorrono all’acqua per abbeverarsi, soprattutto lungo il fosso.

Tutti gli animali del bosco confinante, hanno necessità di dissetarsi, molti di sfamarsi. Di notte ognuno di questi, quando si avvicina alla fonte, ha un progetto in testa: chi per bere, chi conta sulla sete degli amici per sfamarsi. Insomma è durante la notte che in quel fosso si combatte una guerra mai dichiarata, ma infinita: la lotta per la sopravvivenza. Al termine della nottata tutti gli animali devono aver soddisfatto le loro esigenze. Le vittime non contano, ma pure loro contribuiscono all’economia generale della vita.

Qualche tempo fa, in una notte di mezza luna, tutti i soliti attori erano presenti lungo i bordi del fosso. C’erano due Caprioli, un Cinghiale con i suoi figli piccoli, pezzati di grigio, poi la Volpe e non lontano il Leprotto. Il Rospo, invece, molto educatamente in disparte, forse timido, forse consapevole di schifare qualcuno per il suo brutto aspetto, aspettava il suo turno. Vicino c’era un Tasso, una Donnola e, sollevato su un ramo, uno Scoiattolo diffidente, in attesa di spazio sicuro per avvicinarsi all’acqua. In lontananza un Chiù dal suo albero, occupato in esclusiva, ripeteva assillante, ad intervalli ritmati, un avviso per rimanere sveglio fino a notte inoltrata: chiù, chiù, chiù…

Ultimo il Riccio, tranquillo pure lui. Di domestico in questa comunità c’era solo il Gatto, dichiaratamente a caccia del topo, ma poi chissà?

All’improvviso si unirono alla comunità tre uccelli notturni: il Gufo, la Civetta, il Barbagianni, che, senza preamboli, piombò proditoriamente e silenzioso sullo Scoiattolo.

Fortunatamente – per lo Scoiattolo – l’agguato andò a vuoto, perché la preda, per lo spostamento d’aria procurato dalle ali del Barbagianni, cadde dal debole appoggio.

Nel vano parapiglia tutti gli animali, in attesa che ognuno di loro facesse la prima mossa verso la preda nei loro pensieri, s’allertarono.

La guerra era stata dichiarata: la Volpe repentina puntò la Lepre; la Donnola, che aveva perso di vista lo Scoiattolo, partì in direzione del Chiù; il Cinghiale, prima di rimanere senza bersaglio e visto che in famiglia erano diversi a dividere, mirò deciso al Tasso; la Biscia silenziosa e coperta dalla vegetazione scattò il colpo al Rospo. L’impresa più ardua, però, era quella del Gufo, perché doveva artigliare il Riccio. Nel trambusto, nel parapiglia, nello sfrascare si alzò una confusione generale per cui i due Caprioli commentarono delusi: “Anche stasera c’è casino qui. Ci fosse mai una volta che si possa bere in pace!…” e, poggiando a tutta forza sui piedi di dietro, schizzarono via.

Ma la guerra è guerra. Urli, strilli, grugniti, colpi, fischi, richiami, pianti acuti, svolazzi, zaffi di pelo per aria, penne al vento furono i risultati immediati. Pochi istanti di lotta e lamenti, poi, quasi per incanto, tornò il silenzio rotto qua e là ad intervalli da un colpo d’ali, da un grugnito, da un richiamo, da un lagno. Comunque i contendenti erano ancora tutti sul campo, sani fra sì e no; salvi, sì.

Soltanto la Biscia in silenzio aveva attaccato il suo nemico. Stava portando a compimento la sua lotta con il Rospo, che altrettanto zitto subiva la sentenza di morte. Il serpe l’aveva addentato per un piede ed aveva iniziato ad ingurgitarselo. L’anfibio, che era un vecchio stratega e che s’intendeva di guerre, preparò le contromisure.

La Biscia, che non aveva previsto tutto, succhiò la zampa, succhiò la coscia, ma quando fu al grosso, trovò la difesa del Rospo. Questi s’era gonfiato al limite della resistenza della pelle. Moltiplicando il suo volume, era divenuto enorme da impedire l’accesso alla bocca nemica, pure al massimo dell’elasticità. Il serpe maledisse, imprecò, ma dovette desistere e risputò quanto aveva già in gola.

La Civetta finora se n’era stata in disparte a riflettere sulle strategie altrui. Resasi conto della situazione di sostanziale pareggio nella battaglia appena consumata, alzò la voce per attirare attenzione: “Ascoltate tutti, fratelli animali. Vi devo invitare…”.

Più di uno, tuttora incavolato di come erano andate le cose poc’anzi, s’infastidì dalla sgradevole intromissione: “Mo’ che vole questa?! C’è da sentirla, sì! Ogni volta che apre becco porta male. Magari ci vuole insegnare qualcosa proprio lei…”.

“Vi volevo invitare, fratelli animali, ad un attimo di riflessione. Nella guerra appena combattuta, come vedete, non ci sono stati né vincitori, né vinti. Bene così!”

“Come, ‘bene’. Qui c’è qualcuno che è rimasto a stomaco vuoto… Che ne sai tu? Che stai a dire?!”, ribatté la Donnola.

“Insomma. Bene così. Noi dobbiamo vivere tutti in pace. Tutti abbiamo diritto a vivere. Nessuno ha diritto ad uccidere il fratello, il cugino… per un bisogno egoistico”.

“E tu di che campi?”, la interruppe, pronta, la Volpe.

“Esistono possibilità alternative che ogni ‘nemico’ potrebbe procurare al rivale. Per esempio, la Lepre consoli la Volpe fornendo uova e vegetali, il Tasso fornisca miele al Cinghiale, e così di seguito…”.

“Io non sono d’accordo”, interruppe il Tasso. “Dando ascolto a questa idea, metà animali dovrebbero lavorare per sé e per l’altra metà sfaccendata, ti pare giusto? Dividiamo più seriamente il territorio, mettendo segnali e confini precisi ed ognuno rimanga nel suo, campando di quel che trova lì”.

“No. Proposta irrealizzabile”, commentò il Riccio. “Gli uccelli chi li para? Come percepiscono i tuoi confini?…”.

“Sentite” concluse la Civetta. “Io ci ho provato, ma, se a voi sta bene così, seguitate come oggi, che l’animale più grosso mangia il più piccolo, il più scaltro campa ed il tardo soccombe. Io volevo cambiare…”.

“Prendiamoci una pausa di riflessione”, propose il Gufo, “poi tra sette notti ci ritroveremo qui a firmare l’armistizio o con un’idea più attuabile e precisa…”.

Per sette notti nessuno si fece più vedere nelle vicinanze della Fonte. Alla settima notte qualcuno si avvicinò alla larga, quatto quatto, senza farsi vedere ed senza essere visto per spiare cosa facevano gli altri. Fu così che all’ottava i soliti si presentarono alla Fonte sparpagliati e zitti.

La verità era che nessuno aveva coraggio di cambiar vita e modificare la sua natura, né aveva il coraggio di confessarlo.

Nelle notti di seguito tutti gli animali ripresero i loro ritmi, le loro abitudini, facendo finta che nulla fosse successo.

34 – Fonte dell’Acquerella

33 – DRIMMER, IL SOGNATORE

(ndr. Amici lettori, dopo due mesi – ne sono successe tante anche a me… – ho constatato qui che in molti mi hanno pensato. Poco, se riferito all’estate, perché in pochi hanno preso a cuore il mio invito alla lettura. Soprattutto di “Voli di una farfalla” romanzo pubblicato su Amazon.it. Suvvia è carino, poi non costa molto. pubblicizzatelo agli amici, se no gli amici che ci stanno a fare. Ora Drimmer è l’ultima mia invenzione per poterlo dedicare alle mie amiche “gattare”, dopo riprenderemo il percorso… Ciao. Lidiano)

C’era una volta un… gatto.
C’era a volte la Luna piena, bella, limpida che appariva in cielo anche prima dell’imbrunire, immobile, che pareva inutile, che non faceva né luce, né movimenti visibili, salvo illuminarsi man mano che la notte avanzava, salvo salire verso il centro del cielo man mano che si accendeva.
Il nostro gatto era un bel gatto, grigio-topo – giusto per rimanere nel campo -, paffutello, pelo liscio, ben rasato e morbido, svogliato come tutti i gatti, se non fosse stato per quella necessità di stiracchiarsi una volta ogni tanto con due salti, con una corsa, con una cacciata dietro improbabili prede.
I padroni gli lasciavano i pasti pronti, di certo per aiutare la sua vita vagabonda: in un angolo del giardino accessibile a pochi c’erano le sue crocchette, abbondanti; c’era la ciotola dell’acqua.
I padroni gli volevano un gran bene, ma per tutta la giornata erano assenti da casa e dal giardino. A volte per il loro impegni anche di sera erano lontani da casa. Di questo il nostro gatto non era contento. Nei momenti di solitudine non sapeva con chi scambiare due chiacchiere. Soltanto quando rientravano i padroni, egli si allertava e correva a prendersi due carezze, che poi erano vizi a buon mercato, giusto per sdebitarsi un po’, da una parte e dall’altra.
Questo in generale, con delle leggere varianti. La bestiola portava qualche diversivo alla sua giornata pigra grattandosi le unghie al palo che tendeva il filo dei panni, o andando in cerca di prede. Drimmer cacciava ed uccideva le prede nei pressi della porta di casa, giusto per dimostrare che lui sfaccendato non ci stava e che anzi era proprio utile per l’economia della famiglia. Uccelletti, topi, libellule, lucertole e gechi tutto faceva brodo al suo scopo.
La cosa, in verità, non era ben accetta ai famigliari, ma sopportata. A volte appena redarguita con un “Drimmer, che schifo!”
Tutto lì. Senonché il nostro gatto uguale a tanti covava un animo ben più sensibile, potenzialità intellettive più profonde, doti di natura che nessuno conosceva, nemmeno gli altri felini: miagolava alla Luna.
Nelle serate di luna piena, Drimmer era solito salire nel punto più alto del giardino, anche della casa, da dove era possibile spaziare lo sguardo all’orizzonte, all’infinito. Ecco, qui egli s’incontrava con quel soprammobile strano appiccato lì in cielo in modo superfluo ed inspiegabile.

Una sera più noiosa del solito, con un cielo più limpido del solito Drimmer fu tentato dalle sue facoltà speculative, dalle sue manie di sapere. Anzi proprio quando la Luna era limpida e piena successe il suo mutamento interiore: nacque in lui la spinta a sognare.
Fissò lo sguardo al cielo. Rimuginò sulla sua esperienza, sulle sue conoscenze. E si interrogò: – Che ci sta a fare quella Luna lì? Come ci sta appiccata in cielo? Peccato che non si veda dietro, chissà quale gancio la tiene su o quale trucco? –
Il felino infatti aveva visto la padrona che, se voleva sospendere in aria un oggetto, lo muniva di un gancio.
– Miaooo. Miaooo, miaooooo. Luna, tutte le sere mi aspetti. Mi vuoi bene? Raccontami di te… miaooo. Miaooo -.
I miagoloni languidi, più o meno intonati, più o meno gradevoli rivolti alla Luna non ebbero risposta immediata. Ma, dopo qualche vuoto di silenzio, il felino e quelli sulla terra vicini a lui ebbero la sensazione che la Luna rispondesse.
– O mio Sognatore, sei tu che mi invochiiii, sei tu che mi vezzeggi con parole e dolci armonieeeeee? –
– Miaooo, Luna mia, io non sono Sognatore, sono Drimmerrrr, che ti canto per devozione, per l’incantevole lucente tua rotondità, per le mie evasioni… –
– Guarda che non t’ho dato un’offesa, è soltanto il tuo nome da… italiano. Sognatore, cosa immagini per me nel tuo sogno? –
– Miaooooo, ti vedo così bella. Quando arrivi, è sempre la stessa ora di una giornata limpida e solare, porti bene. Miaooo, sembri a portata della mia zampa. Sei bella, però inutile. Mi appari come un soprammobile curioso. Mi spii e poi ti sposti lentamente nel cielo, sali senza far vedere come fai e come stai su… Miaooooo –
– Sognatore mio, non so se devo sentirmi offesa o adulata. Poi vuoi sapere troppo. Prova a sognare ancora… -.
Dunque arrovellava il cervello di Drimmer la curiosità: quale gancio fisso dietro la schiena della luna la tenesse in cielo; insomma come stesse lì, che facesse…
Non era facile intendersi.
– Miaooooooo! – mutò intonazione il Sognatore.
La Luna, come in un lampo di generosità iniziò a cantare una melodiosa serenata per rispondere ai desideri del languido felino.
– Sognatore mio, dolce ed ingenuo, ti toglierò ogni pena dalla mente. Tutta d’un fiato ti parlerò di me, risponderò a quello che vuoi sapere. Io sono un astro del cielo che gioco a nascondino con i grandi ed i piccini, con gli animali e con la natura terrena. Quando manco da questa faccia del mondo, quando non mi vedi è perché sto a consolare i Sognatori dell’altra parte, quella che tu non conosci e non vedi. Mi sorregge in aria l’alito del sole, l’altro astro luminoso che s’è appena coperto dietro l’orizzonte alle tue spalle. Non vi sono bretelle o ganci dietro la mia schiena, ma soltanto fluidi, soltanto luce e il calore dell’universo. Se vuoi continuare il sogno, allunga una zampa e salimi in braccio. Ti mostrerò tutto il mio corpo, oltre al mio volto pallido. Allargherai l’orizzonte… Dammi la zampa, Sognatore. Vieni -.
– Miaooo. Sei la culla, sei il lettuccio di casa, Luna dei miei sogni, Luna delle mie notti. Quante cose mi mancavano dalla mente e dal cuore. Vengo con te… –
Drimmer ad occhi chiusi allungò la zampa verso l’alto e… rotolò di sotto: – Miaooo, miaoooooo. Fruuu, fruuu… -.
Due uccelletti insonnoliti dentro il cespuglio poco distante frullarono via. Drimmer aveva disturbato il loro tiepido appisolarsi.

 

33 – DRIMMER, IL SOGNATORE

32 – Il falco e la chioccia

foto copertina voli.jpg

PS.: Cari amici lettori, questa estate leggete pure “voli di una farfalla” ordinando da amazon.it. E’ romanzo adatto da leggere all’ombra di qualcosa… buone vacanze. Lidiano

 

Vedi il falco? Guarda lassù, – disse la mamma al bambino, indicandogli il cielo -. Il falco fa la “rota”. Mi sa che ha preso di mira la chioccia e i pulcini nell’aia. Vai là e stai vicino ai pulcini, perché non si butti giù a prenderli. Stai attento. Fatti vedere. Mi raccomando”.

Il bambino obbedì. Trovò la chioccia con la sua nidiata, lei avanti ed i piccoli dietro. Era una grossa gallina che camminava lenta in mezzo alla paglia marcia ed agli sterpi. Ogni tanto alzava la testa, dava uno sguardo intorno e raspava due, tre volte quei detriti, poi chiamava i piccoli a beccare:

Vedete, figlioli miei, questi che si muovono sono vermi e lombrichi per voi. Beccate. Io li scopro dalla terra per voi. Fate così anche voi. Imparate. Mangiate: coò-co-co-cò”, raccomandava loro la madre con la caratteristica voce chioccia.

Pipipì… sì, sì, sì…”, le pigolavano dietro i pulcini festosi e petulanti.

Vedete, piccoli miei, state attenti. Guardate su verso il cielo. Quello che gira lassù è il falco. Coò-co-cò. È pericolosissimo per noi, perché anche lui sta cercando di mangiare, ma per pasto vuole qualcuno di noi… Attenti e veloci. Se si getterà su di noi, io farò un grido e vi dirò di correre al riparo. Voi correte dietro il pagliaio ed io rimarrò a lottare con lui per cacciarlo indietro. Avete capito? Voi correte senza voltarvi indietro; non vi fate prendere. Coò-co-co-cò”.

Dieci batuffoli di pelo giallo s’erano fermati ad ascoltare con attenzione. Fecero silenzio e guardarono in alto, come per rassicurarsi. Poi ripresero il pigolio solito. Il bambino assisteva da lontano: con la fionda tirava sassi a tutto ciò che si muoveva, prendeva di mira bersagli d’ogni tipo come foglie, piante, muri…, finché rimase distratto per un po’ dietro ai suoi giochi.

Passò del tempo, il sole s’era alzato più alto nel cielo, il falco continuava i suoi volteggi quasi perfetti, ogni tanto spariva alla vista coperto dalla luce diretta del disco solare.

D’improvviso un gran trambusto riportò tutti all’attenzione necessaria. Il falco, silenzioso come una piuma, si fiondò sul gruppo, sicché mamma chioccia s’accorse all’ultimo momento della disgrazia che stava per colpire la sua famiglia. Gridò, starnazzò, spaventò i suoi piccoli che alla rinfusa si precipitarono sotto il pagliaio. Ci vollero degli istanti prima di rendersi conto che era andata bene. I gridi e lo spostamento d’aria delle ali del rapace avevano aiutato allo scopo: mettere in salvo le piume. La chioccia, rimasta sola sul campo, gonfiò le piume e le penne, allargò le ali ed affrontò il nemico. Volarono ciuffi di penne, volarono beccate ed artigliate. Il falco lottava in silenzio, come suo costume, ma la gallina, che stava vendendo cara la pelle, attaccava l’intruso con ogni mezzo, compreso un superbo gracidare, che le dava forza e la faceva apparire un leone. Lo starnazzare, i richiami scomposti si sentivano ovunque lì intorno ed anche da lontano. Si sfiorò la tragedia, ma l’amore e la grinta l’ebbero vinta.

Nel frattempo la padrona della chioccia aveva sentito quelle concitate richieste d’aiuto e si precipitò per le scale per vedere l’accaduto.

Troppi testimoni tutti insieme… Il falco riprese la via del cielo non senza aver minacciato un prossimo ritorno. Anche il bambino, che aveva avuto sentore di qualcosa d’insolito a pochi passi da lui, lasciò su due piedi il suo divago. “Cos’è successo, Luigino?”, domandò la madre.

Nulla, mamma. Nulla!… Forse il falco… Tutto a posto. Lo stavo per ammazzare.”

Sei sicuro? Conta i pulcini. Devono essere dieci. Vedi se qualcuno è sparito con lui…”

Il bimbo contò: “Sono dieci…”.

E’ andata bene. Stai attento. Quella chioccia è un diavolo. Fa paura anche al falco!”

Tutti ripresero la loro vita: la chioccia con i pulcini dietro, il bambino a giocare, il falco a roteare. La madre con le faccende di casa. Ma soprattutto il bimbo con la fionda ed i suoi bersagli mobili… Luigino era bravo con la fionda: ogni colpo uno schiocco nei muri, nelle recinzioni, nelle piante.

D’improvviso, silenzioso come una biscia il falco con le sue ali raccolte piombò di nuovo sulla chiocciata. A due metri da terra iniziò a frenare la sua corsa. Le sue ali frusciarono quasi un sibilo. Il bambino le vide spaventosamente grandi che coprivano tutte le possibili vittime; si ricordò le raccomandazioni della madre e gli starnazzi della chioccia. Tese la fionda, mutò bersaglio e scoccò il sasso che aveva in carico verso l’uccellaccio. Non sbagliò, ma colpì l’unica cosa nuda del rapace: il piede proteso sulla vittima presa di mira e gli fece molto male.

Quel piede non artigliò nessuno, il falco gracidò con forza ed invece di riprendere il volo, prese a saltellare azzoppato per l’aia. Il bambino fu molto contento del suo colpo felice e del risultato. Il falco dolorante mise su tanto frastuono che mai aveva messo in atto prima di allora, imprecò la malasorte e a svolazzi ed a salti zoppi si stava allontanando, ma non riusciva a riprendere quota.

Coò-co-cò, coò-co-cò. Piì-piì-piì, piì-piì-piì-piì… Prima la chioccia, poi i pulcini si resero conto che l’avevano scampata un’altra volta. “Bravo! – chiocciò forte la gallina -. L’hai preso, speriamo che abbia capito di lasciarci in pace”.

Bravo, bravo, bravissimo…”, pigolarono i pulcini.

Luigino si sentì un eroe, rincuorato e soddisfatto del suo operato. Con un colpo solo aveva salvato la famiglia e l’onore suo. “L’ho preso, l’ho preso, l’ho azzoppato”, gridò rivolto alla madre.

Bravo. In testa te la do la fionda. Te l’ho sempre detto che è pericolosa!…”

Sfottuto e ferito grave, il falco si voltò per vedere che succedeva dietro di lui. “Li mort… tua e li mort… vostri! Uh, che male! Io dovevo mangià, oggi. Voi eravate in tanti. Uno in meno non era niente per voi e io ho lo stomaco vòto…”.

Intanto, faticando a svolazzi era giunto sopra un sasso che sporgeva dalla greppa. Da lì dette un addolorato sguardo verso le sue vittime persecutrici e si buttò giù. Con grande sforzo riuscì a prendere quota per riportarsi nel suo nido alto fra le rocce, dove gli amici lo presero in cura. Perché anche i falchi hanno amici da qualche parte.

32 – Il falco e la chioccia

31 – Il cane e il riccio

 

N.B.: del stesso autore ordina: Voli di una farfalla su amazon.it, romanzo bello e interessante.

Un bastardino fiutava tutti i siti sparsi di qua e di là ai lati della strada. Camminava e annusava. A volte leccava e annusava quel che trovava, fosse un ciuffo d’erba, un palo della luce, una panchina, una siepe. Ecco, se trovava una siepe, gli si risvegliava un istinto cacciatore che chissà da quale atavico gene era alimentato.
Il piccolo cane, dal pelo lungo, dal biondo al marronescuro, era alto poco più di un palmo, aveva le orecchie grandi e penzolanti sul muso, una coda ritorta sempre in movimento, soprattutto quand’era a caccia e stava inquadrando la preda. Si chiamava Boby. Aveva un carattere docile quando giocava, ma anche aggressivo, quand’era concentrato sulle sue mire: non sentiva nessuno, padrone compreso, e non obbediva. Comunque con il padrone aveva raggiunto un ottimo affiatamento, quasi da simbiosi, quando i due erano soli insieme.
Un giorno il cane ed il padrone si presero qualche attimo di respiro dalla solita vita e si recarono in campagna per una passeggiata rigeneratrice. Il padrone sciolse la bestiola dal guinzaglio e le dette quel minimo di libertà utile per fare il bisognino senza le attenzioni solite, riferite all’igiene pubblica ed alla decenza. Insomma per dare libero sfogo ai richiami della natura canina, compresa la voglia di fiutare ed allenare il suo istinto cacciatore.
Boby di fronte a tanta liberalità brillò di contentezza. Veloce come una lepre cominciò ad annusare sistematicamente ogni sporgenza, ogni piantina, ogni cosa. Entrava nelle sterpaglie e riusciva. A volte si fermava qualche istante, insistendo a fiutare con il naso infilato nel punto più nascosto. Altre volte toglieva la pace ad una farfalla e le dava dietro, facendo finta d’aver stanato la preda. quando sentiva una lucertola, allora la lotta si faceva dura, perché la intuiva, ma non la vedeva. Il cane preparava l’agguato, saltando e gettandosi a piedi pari sul possibile nascondiglio.
Era un piacere per il padrone vedere la gioia del suo cucciolo sprigionata con tanto entusiasmo, con tanta dinamicità.
La festa, il gioco da quasi primavera andò avanti per un po’ in mezzo alla natura selvaggia e spontanea, finché il cane rallentò la foga e lentamente, quasi con prudenza cominciò ad entrare nel folto di una siepe di rovi impenetrabile. La bestia annusava ed avanzava.
Allorché il folto si compattò e si rese inaccessibile, il cane con la bocca iniziò ad afferrare i rovi ad uno ad uno; li allargava con movimenti studiati e intelligenti per farsi strada, incurante del dolore. Il padrone, accortosi dei danni fisici che avrebbe subìto, lo richiamò: “Boby, fermo, vieni qui!”
Boby non sentiva, anzi, all’insistenza del richiamo, proprio non obbediva. Andava avanti nella penetrazione, facendo capire che era preso in tutto il corpo dal suo istinto cacciatore. Finché sparì alla vista ed agli ordini. Il padrone capì che nulla avrebbe fermato quel richiamo naturale e rimase in attesa a guardare: “Che avrà fiutato?”.
Dopo qualche minuto il cane, sempre lentamente, riapparve a marcia indietro dal pertugio appena praticato. Arrivò ai piedi del padrone con un grosso riccio in bocca chiuso a palla: trionfante mostrò la sua preda.
“Ed ora che ci facciamo? Povera bestiola, stava dormendo e tu gli hai rovinato il riposo e la tranquillità”, gli disse con tono di rimprovero il padrone.
“Ma come, ho lavorato tanto, ci ho rimesso molta pelle e fatica per prenderlo, l’ho portato per te e mi ringrazi con un rimprovero?”
“A me, non mi serve. Io penso che è più utile alla natura lì dove l’hai trovato. Tu sei stato bravissimo, ma adesso lascialo. Vediamo se torna a casa sua…”.
“Padrone, a volte non ti capisco. Fai tanti giri per procurare il mangiare per te e per me: oggi l’ho trovato io e non mi sei riconoscente. Allora me lo mangio da solo. Senti che puzzo buono, forte ed eccitante?… Tu non guardare…”.
“No, io guardo che non ce la farai mai, se osservi la palla di spine chiusa che hai davanti. Ti farai male, ti sei scorticato il muso e la bocca, dopo io dovrò curare i tuoi capricci”.
Allora il cane, in un gesto di sfida, posò a terra la palla, con la zampa la girò dalla parte dell’apertura delineata da una striscia di pelo bianco misto alle spine. Lì il riccio teneva nascosto il muso, le zampe, la coda, il ventre, le parti deboli. Il cane gli orinò sopra.
Il riccio, al sentire quel calduccio, quel liquido, quel puzzo diverso dal suo, allentò i muscoli e cominciò ad aprire la palla per riprendere la sua forma da sveglio. Nel momento in cui il cane lo stava addentando, parlò:
“Io puzzo tanto, per questo mi hai trovato. La tua orina puzza altrettanto. La tua malizia è intelligente, ma non ti sarà utile come hai pensato. Tu sei più veloce di me, perciò io non fuggo, ma aspetto che tu sguarnisca la mia difesa”.
“Io non ho fame, ma ti devo sbranare, perché ho vinto…”.
“Provaci…”. Lo provocò il riccio, mentre gli sferrò un morso ad un piede, prima di richiudersi.
Il cane guaì addolorato. Poi rigirò ancora la palla e provò a versarvi sopra altra orina. Si ripeté la scena di prima. Solamente che il riccio stavolta preferì affogare nel puzzo del suo nemico piuttosto che dargliela vinta e non allentò la sua difesa.
Frattanto sospetta e lenta una biscia, che aveva sentito il battibecco, si avvicinò a due, guardò, ascoltò. “Cosa sono tutte queste chiacchiere, forse state litigando, forse è in corso una guerra ed io non me ne sono accorta? Posso essere utile?”, ma non vedendosi presa in considerazione, scivolò via verso il folto della siepe.
Boby, distratto dal nuovo fruscio, si rese conto del movimento e della possibile nuova preda, magari più facile. D’istinto si ributtò a caccia e inseguì il rumore della biscia che s’allontanava.
Fu inutile.
Il padrone intanto, prese in mano la palla e la portò qualche passo più lontano: “Vai e, se puoi, risparmia le bisce che a volte possono salvare una vita…”. E, rivolto al cane, seguitò:
“Boby, vieni qui, che ormai non la prendi più! Andiamo a casa”.
La bestiola questa volta obbedì ed il padrone gli agganciò il guinzaglio.

 

31 – Il cane e il riccio

30 – Il gatto nero e l’automobile

PS.

C’era una volta una strada in periferia della grande città, dove il traffico non mancava mai, anche se era una via secondaria, che serviva soltanto gli abitanti di alcuni grandi condomini.

Era comunque troppo stretta, senza marciapiedi e piena di veicoli in sosta in ambo i lati della carreggiata, sistemati molto alla meglio. I pedoni erano costretti ad arrangiarsi assai per muoversi, per districarsi tra un ostacolo e l’altro, così da arrivare indenni all’uscio di casa.

La sera, dopo l’ora di cena il traffico delle auto diminuiva e pure quello dei pedoni che, per lo più a capo chino, si spostavano decisi, immersi nei loro pensieri di fine giornata. Fu in questo momento di una serena serata di estate che un gatto nero come la pece decise di ispezionare le ciotole, dove anziani benefattori gli facevano trovare la cena: una ciotola sotto un’auto poco usata, una all’angolo del palazzo, un’altra nell’avvallamento di un chiusino.

La bestiola s’accostava, ispezionava, annusava se mai fosse arrivato prima di lui qualche concorrente indesiderato; trangugiava, leccava quel che trovava e, sempre circospetto, si dirigeva al successivo punto di riferimento.

Durante tali visite gli era necessario attraversare la carreggiata più volte. Così anche quella sera si comportò da esperto randagio di quartiere: attraversò la carreggiata senza accorgersi, però, che proprio in quel momento stava sopraggiungendo, silenziosa e rapida, un’automobile piuttosto voluminosa.

L’auto inchiodò: si udì lo stridore dei freni seguito dallo spostamento repentino in avanti dei passeggeri. Dentro l’auto ci fu un attimo di spavento prima della domanda: cos’è successo?

Ma che… gatto fai, li mortacci tua!” urlò il conducente in direzione della bestiola, che sollecita, guadagnò il riparo sotto un veicolo in sosta. Poi con lo stesso tono rivolto al passeggero,che forse aveva dubitato della sua abilità di guida: “Che c’è?! Non hai visto? Era un gatto nero, che ha attraversato tranquillo la carreggiata davanti a noi”.

Embèh?! Mica l’hai preso. Va a saper dov’è arrivato a quest’ora!”.

Eh, lo so io dov’è. Sta sotto quell’auto e non si muove lo stro… E mica torna indietro! Ora io come faccio? Devo passare, ma non posso, dove è attraversato quel gattaccio nero”.

Perché? Mica ha lasciato chiodi per terra… No, non mi dire che sei superstizioso. Se hai paura di un gatto, figuriamoci di un cane grosso o di un altro animale di campagna…”.

Ebbene sì, io ho soltanto paura di un gatto, ma di un gatto nero come questo e finché non torna indietro da solo o passa un altro veicolo avanti a me, io non mi muovo da qui”.

Oh, stiamo freschi, anzi famo notte! Vuoi far notte qui? Guarda che, se arriva un’altra macchina, non ci passa e ti tocca andare avanti per forza”.

Ora ci penso io!” concluse deciso il conducente, mentre scendeva dalla guida. Poi si diresse dov’era il gatto seduto, seminascosto. “Ehi, tu, bestiaccia maledetta, vieni fuori e torna dov’eri”.

Il gatto era lì a due passi, ritto sui piedi davanti, impassibile ascoltò, ma non si mosse.

“’Sto demonio!” Fece ancora il conducente rivolto al gatto, “Demonio, alzati prima che sia io a spingerti o a darti un calcio in culo. Torna di là”.

Il gatto miagolò flebilmente, poi, all’insistere dell’interlocutore, rantolò qualcosa: “Io non mi muovo di qui. Ho paura di te e dei tuoi mezzi. Non mi fido…”

Via, per piacere, micio bello, alza il culo. Torna indietro. Fai conto che io non ci sia, la mia auto non si muove. Di là troverai altre buone polpette…”.

Miao!” rispose il felino più forte in gola, “ma che ti sei messo in testa! Hai paura del mio pelo e mi preghi, oppure mi dai un calcio? Fatti sotto, se hai coraggio. Io non mi muovo…”.

I passeggeri s’erano stizziti di questa diatriba tra un gatto, piccolo, ed un uomo grosso e coglione: “Lascialo perdere, altrimenti prendilo in braccio, fagli due carezze e portalo tu dove vuoi”.

Io lo porterei all’inferno ‘sto demonio! Mica lo alza il culo. Mi ringhia, mostra i denti, mi minaccia. E chi lo piglia così incavolato! Ha il pelo ritto. Ha capito che lo voglio tirar fuori dal sicuro e sta pronto ad assalire…”.

M’hai quasi schiacciato con la macchina e mi son preso una bella strizza. M’hai detto i morti, pensi che ti porti jella e poi c’hai pure raggione ora che discuti con me? Non ti conosco e non mi fido, ho detto. Alza il culo tu e vattene, sfigato”, miagolò ancora il gatto.

Intanto un passeggero manifestò segni di impazienza; al conducente stavano per saltare i nervi, mentre il nostro portaguai era sull’attenti, sì, ma al riparo tranquillo, a distanza di sicurezza.

Proprio in quel momento un motorino rombante, guidato da un ragazzotto arrivò e si fermò dietro l’autovettura in sosta in mezzo alla strada. Quando il giovane si rese conto che il conducente era fuori e impegnato in cose diverse dalla guida, suonò due volte il clacson, poi prese la mira nel poco spazio rimasto tra l’auto d’intralcio e quelle abbandonate a lato della carreggiata, dette una sgassata e partì a razzo a mo’ di gincana. “’Sti stronzi…!” farfugliò a voce alta, eseguendo la manovra poco regolare.

Però, dopo la mossa azzardata e veloce, allorché stava per riprendere l’andatura diritta e normale, con la sua pedana agganciò il parafango del veicolo d’intralcio. Il motorino cadde di traverso alla carreggiata ed il conducente ruzzolò. Ci fu un gran fracasso. I passeggeri in attesa sull’auto scesero e insieme al conducente, che lagnoso brontolava: “Lo dicevo io, lo dicevo io, che porta male!…”, andarono incontro al disastro per rendersi conto dello stato di salute del giovane.

Questi, mentre si sforzava di raddrizzare e rimettere sulle ruote il motorino, scomodò tutti i morti ed i santi del paradiso, poi dette uno sguardo al mezzo, valutò il danno, si sbatté i pantaloni e risalì in sella. Un’altra sgassata e ripartì incavolato nero, senza aspettare la consolazione di nessuno.

Il gatto, sentito tale trambusto, s’accorse che l’attenzione di tutti era rivolta altrove. Quatto quatto, guardingo, a passo felpato riprese la strada da dove era venuto. Poi a fine attraversata accelerò e miagolò forte: “’Sti stronzi! Li mortacci vostra, a ‘sti portatori di jella. Mica te fanno magnà in pace!”

Meno male che s’è mosso. Ora possiamo andare,” concluse il conducente rivolto alla bestiola nera.

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30 – Il gatto nero e l’automobile

29 – Il grillo, il rospo e la tartaruga

 

Un prato verde sterminato, l’erba alta della primavera inoltrata, una pozzanghera ai margini del prato. L’erba era rigogliosa, perché le piogge erano da poco allentate ed il sole la riscaldava. Il giusto tepore dalla mattina alla sera aveva creato un ambiente favorevole alla vita dinamica di tutti gli esseri che frequentavano quel paradiso terrestre.

Non distante dalla pozzanghera un grillo passava la giornata a sgolarsi dalla contentezza: cantava, cantava incessantemente nascosto nel folto della vegetazione. Non erano pochi quelli che si lamentavano con lui più o meno apertamente: non si dormiva più, non si riposava. Egli non faceva nemmeno la pausa per una pennichella. Quel continuo “cri, cri” aveva annoiato, anzi stancato la pazienza di molti.

Un rospo, che stazionava nella vicina pozzanghera, era condannato a starsene spesso sott’acqua per attenuare quello stridere incessante, noioso e forte. Benché, pure lo stare sott’acqua non eliminava l’inconveniente, anzi a volte pareva che il liquido aumentasse il fastidio. Alla fine anche il rospo, sempre paziente, un giorno sbottò e glielo disse: “Senti, grillo, o la smetti, o ti calmi e ci fai riposare, o qui finisce male… per qualcuno di noi!”

Che vuoi dire? È una minaccia? Devo aver paura?”

No, ma la devi finire di sgrillare di continuo giorno e notte. Io te l’ho detto. A te decidere che fare…”

Dopo questo duro scambio di opinioni, il rospo parlò con i vicini, la tartaruga, le ranocchie, una biscia, un cinghiale, una cornacchia e qualche altro animale.

Tutti si riunirono in assemblea con all’ordine del giorno la “rottura di scatole” incessante che il grillo procurava alla comunità animalesca.

Io, cari compagni, se quello non la finisce, uno di questi giorni me lo magno. N’ho le tasche piene”, esordì il rospo.

Calma, – intervenne una rana, consapevole di avere qualche cosa da farsi perdonare anche lei -, se lo trovo, ed io lo troverò, ci metterò una buona parola, affinché lui si sfoghi un po’ meno, ma lasci riposare anche le nostre orecchie nell’arco della giornata”.

Io veramente sono un po’ sorda, – precisò cauta la serpe -. Non lo sento sempre. Sarà che quando mi muovo – e mi sposto spesso – con il mio rumore copro quello del grillo. Sta di fatto che non mi sento coinvolta …”.

Io, – disse la cornacchia – per il fatto stesso che c’è qualcuno che rompe la tranquillità, l’ordine costituito, sono disposta a punire i colpevoli, chi sgarra; oppure ad appoggiare chi ha bisogno. Comunque, se lo trovo sui miei passi – ed io mi muovo molto –, farò in modo che il grillo non disturbi più”.

Certo che siete tutti severi con gli altri e forse meno con voi stessi. Volete che io conti i difetti vostri? Io non lo conosco il grillo, non ho nulla da spartire con lui, ma forse per mia indole sono più paziente. Insomma, sta di fatto che eviti di sentire e di puntare l’ascolto il quella direzione: mi tappo le orecchie. A me non interessa che il grillo canti. Buon per lui; già il pensiero mi dà allegria…”, lo difese la tartaruga.

Il cinghiale pure si defilò dalla discussione: “Io sono sempre in giro. Frugo, grugnisco, raspo, non ho tempo di ascoltare i canti degli altri. Anzi non li sento proprio. Vengo alla pozza per rinfrescarmi un po’ e riparto. Fate altrettanto. A me non dà noia, a meno che non mi capiti sotto il naso. Se non vedo, non penso; con l’istinto posso zittire la fame ed i… grilli dei campi”.

Insomma, ho capito – concluse il rospo – volevo un consiglio, un aiuto da voi e voi tutti evitate di darmelo. Anzi siete favorevoli “all’allegria” del grillo. Sentite, io non mi posso allontanare dall’acqua. Visto che non mi avete convinto e sono rimasto sulle mie posizioni, se mi capita, lo elimino. Diteglielo pure…”.

Calma, rospo mio. Non essere drastico nelle conclusioni. Anche tu potresti incappare nelle mire di altri. Potresti dar noia con il tuo ingombro assai brutto, con la tua presenza sgradevole per l’estetica e per la voce, od anche essere utile a qualche amico nostro e noi allora non ti potremmo difendere…”, minacciò velatamente la tartaruga.

L’assemblea fu sciolta con molte idee dei partecipanti più chiare, ma senza un consiglio condiviso.

Il rospo, dunque, tornò alla pozzanghera deluso e deciso di risolvere il problema da solo: eliminare l’inconveniente, il grillo pettegolo.

Intanto bisognava cercarlo e trovarlo. Poi era necessario non fargli capire che era ricercato per l’esecuzione di una sentenza capitale a suo danno.

Il rospo iniziò la ricerca del reo. Si muoveva in mezzo all’erba alta con fare circospetto, piano…, piano…, lento, silenzioso, attento, guardingo alla ricerca ed all’avvicinamento dell’obiettivo. Però ogni volta che arrivava ad un passo dal grillo, questo cessava il suo canto e si spostava più là. Poi ricominciava.

Il rospo presa la nuova direzione, si muoveva verso quella. Il grillo, allora, si zittiva per un bel pezzo ed il rospo si disorientava.

La tacita battaglia tra i due riprendeva ogni giorno daccapo, senza arrivare alla conclusione. Però il rospo in questi ripetuti tentativi, in questi spostamenti imparò qualcosa di sicuro: il grillo al suo avvicinarsi si allontanava dalla casa, un buco profondo in terra in mezzo all’erba più alta, poi vi tornava al cessato pericolo.

Fu così che il rospo trovò il buco del grillo. Si mise fermo lì, dormì lì e lo badò fino al giorno dopo. Il giorno successivo, quando il grillo s’affacciò sul foro della sua galleria per iniziare una nuova cantata, il rospo era già lì davanti a bocca aperta e senza preamboli lo ingoiò.

La situazione si fece seria per il grillo, ma non disperata, perché l’anfibio, non avendo denti, non lo triturò, ma nemmeno lo ingoiò del tutto. Infatti i piccoli artigli del grillo ne frenavano la discesa nello stomaco, dove forse sarebbe stato ucciso dai succhi gastrici.

Il grillo rimase impigliato per le zampe tra la gola e la lingua senza scendere più in basso. Qui, dopo i primi attimi di spavento, raccolse le idee per decidere il da farsi. La conclusione fu: continuare il suo “lavoro” come se nulla fosse accaduto e… sperare nella buona sorte.

Il “cri, cri” continuo cominciò ad uscire dalla bocca del rospo, ma con tono falsificato, in modo più sgangherato, più stonato, sicché pareva che proprio fosse il rospo a male imitare il grillo.

Qualcuno sentì, ma seguitò a non dire nulla, a non lamentarsi. Soltanto la tartaruga capì la situazione e dopo una giornata di calmo cammino si avvicinò al rospo.

Com’è? ora ti sei messo a cantare tu? Vuoi zittire il grillo con pari lena?”

Il rospo aveva la faccia triste, la bocca aperta triste che non gracidava e mal grillava. Ogni tanto si girava su se stesso, si contorceva dal dolore e poi rimaneva lì come prima. Insomma non poteva rispondere, né rispose alla provocazione della tartaruga.

Che faccio, me ne vado? O vuoi un aiuto?”, continuò lei.

Il rospo con una zampa indicò la gola, dove aveva il male, dov’era l’origine di tutto il guaio.

Apri bene la bocca ed io guardo cosa posso fare per te. Poi parliamo”.

Il rospo obbedì. La tartaruga infilò la testa dentro, vide il grillo impigliato in gola, lo prese e lo estrasse, strappando anche qualcosa. L’operazione, però, ebbe successo: il grillo fu rimesso in libertà, nonostante la sua testardaggine, il rospo fu libero dalla pena, nonostante qualche sanguinante scortico.

E vissero tutti felici e contenti? No, perché prima i contendenti dovettero subirsi la tremenda requisitoria con imposizione di un patto di pace da parte della tartaruga: “La galleria del grillo d’ora in poi sarà del rospo. Egli si assottiglierà tanto, finché vi possa entrare senza mangiare nessuno. Il grillo potrà cantare senza limiti, ma lontano dalla casa del rospo e dalle pozzanghere occupate dai rospi. La decisione non è discutibile, è senza contraddittorio, perché qui l’unica ad avere ragione sono io, che ho salvato tutti e due dagli impacci. Obbedite e buona giornata”.

29 – Il grillo, il rospo e la tartaruga

28 – Le rane in una notte di luglio

 

Nella piana dei Pozzacci c’è un piccolo avvallamento dove si raccolgono tutte le acque delle colline d’intorno, dei luoghi più elevati che la circondano. Più qua e più là in quei prati, che il lavoro degli uomini nei secoli ha quasi livellato, affiorano piccole sorgenti che alimentano pozze dove si abbeveravano le bestie domestiche e dove oggi si abbeverano gli animali selvatici. Ora le sorgenti sono alimentate poco dalle acque piovane che il tempo ha reso più rare e d’estate spesso le sorgenti sono asciutte: le pozze senz’acqua, gli animali senza bere.

Intorno a queste polle ed a queste pozze prosperava e prospera una vita parallela fatta da piccoli insetti, uccelli in cerca di cibo, anfibi… Ecco soprattutto le ranocchie ed i rospi hanno sempre approfittato di quella frescura per vivere tranquilli con cibo facile e abbondante, per cantare… Il loro canto è sempre stato udito da tutta la conca, ha tenuto svegli e allegri tutto il vicinato e le abitazioni che si affacciano sulla piana dei Pozzacci. Il gracidio iniziava all’imbrunire e finiva all’alba, ai primi albori del giorno, da primavera alla fine dell’estate. Qualche anno fa gli uomini a gara seguivano i primi cra cra della sera da un parte della piana, poi tentavano di indovinare da quale altra parte avrebbero risposto le rane sorelle.

L’estate scorsa non ha piovuto mai nella zona, anche a primavera era piovuto poco. Le colline hanno assorbito poche riserve d’acqua, poi un caldo ed un’afa terribile hanno prosciugato la piana; i cori, sera dopo sera si sono affievoliti, sono diminuiti di numero, finché si sono zittiti.

Era finito l’umido, era finito il cibo, molte rane morivano di fame e di sete giorno dopo giorno. Ma tutte non morirono, qualcuna più giovane trovò il modo per allungarsi la vita.

Cos’era successo, come aveva fatto?

La più giovane rana si accorse della situazione e si rese conto di come si stavano mettendo le cose: presto sarebbero mancati l’acqua e l’umido per tutta la piana. Le rane e tanti elementi di vita sarebbero finiti, perciò bisognava inventarsi qualcosa. Mise tutta la forza in un grido accorato. Con il suo gracidare più forte riuscì ad avvisare anche le sorelle superstiti più lontane: nella notte prossima dovevano venire tutte alla sua pozzanghera, ora la più fresca, per affrontare il problema della siccità e della sopravvivenza; facessero ogni possibile sforzo.

Durante la notte nella piana fu tutto un viavai di rane. Nel silenzio un sommesso fruscio continuo seguiva gli spostamenti dei piccoli esseri che andavano concentrandosi nel punto più basso della radura. Qualche ciuffo d’erba più verde e più alto ne indicava la posizione: si vedeva che l’acqua mancava da poco, ma non c’era più. La terra era fresca per il sopraggiungere della nottata, era nera di fango asciutto, senz’acqua.

– Ci siamo tutte? – all’apparir dell’alba gracidò alto la giovane che aveva preso l’iniziativa.

– Ci siamo quelle che abbiamo sentito il tuo richiamo; quelle che abbiamo avuto le forze per venire…

– Benvenute, amiche mie. Grazie di avermi ascoltato, ma, come vedete, quest’anno la situazione dell’acqua è tragica. Dobbiamo decidere insieme, consigliarci per trovare una via di salvezza, perché senz’acqua presto moriremo e non lasceremo discendenza né qui, nei dintorni. Sono addolorata per quelle sorelle che non ci possono più ascoltare. Noi dobbiamo salvarci tutte insieme.

– E’ vero, noi non avevamo più coraggio di cercare altra soluzione, né di cantare. Aspettavamo la morte come tante altre hanno già fatto, – l’interruppe la più in forma tra il gruppo.

– Mia madre e le mie parenti – riprese la giovane intraprendente – mi hanno raccontato che un asciuttore così non si era mai verificato nella piana dei Pozzacci e senz’acqua non solo noi non abbiamo forza per cantare, ma non abbiamo cibo e lubrificazione sulla pelle. Siamo rimaste in poche e con poche forze. C’è qualcuna di noi che ha una proposta per tentare una via di salvezza?

– Alla mia pozza da tempo hanno cessato di venire a visitarmi i cinghiali. Loro mi smuovevano le zolle fresche, facevano ed allargavano la buca in cerca d’acqua. Pure loro hanno perso la speranza, – commentò un’altra. – Da giorni non vengono più.

– Gli uomini non lavorano più i campi, non hanno fieno, la terra è arsa e senza erba per le loro bestie… -, aggiunse una nuova.

– Insomma che facciamo? – insisté la giovane.

– A due ore di corsa da qui passa un fosso. È sicuramente asciutto anche quello, ma, seguendo il fosso, potremmo arrivare al fiume chissà quando, prima o poi… -, fu la prima proposta uscita dal branco.

– Io direi di sforzarci tutte insieme qui, scavare, scavare la terra più fresca che abbiamo in questo punto, poi mettersi al riparo, a riposo in anticipo, secondo la stagione, e aspettare… -. Fu un’altra idea dalle presenti.

– Aspettare la morte dormendo od aspettare un po’ di fortuna che quanto prima porti la pioggia…, – fu il commento amaro della ranocchia in fondo al branco.

– Le mie ossa, le mie sensazioni dicono che non pioverà per molto ancora. Moriremo tutte, – commentò sconsolata la più vecchia del gruppo.

– Amiche, dunque le proposte sono due: o partiamo in cerca d’acqua molto lontana con la speranza di non morire prima d’arrivare, o ci seppelliamo in anticipo qui nell’attesa dell’acqua o della prossima primavera: scegliete!-

I voti di preferenza furono quasi tutti per rimanere in attesa della fortuna: forse morire, ma con meno rischi e fatica. Si guardarono intorno, mangiarono per l’ultima volta quel che trovarono nelle vicinanze, poi tutte insieme pregarono gli dei di tutti gli anfibi e cominciarono un affannoso lavoro di scavo. Si fecero piccole e sottili per entrare nelle gallerie scavate, dove fino a qualche tempo fa c’era una raccolta d’acqua naturale e si addormentarono in attesa di essere svegliate a sorpresa da un rivo d’acqua prima della catastrofe.

Nessuna contò quanta parte della vita rimase in letargo al fresco sotto terra, ma finalmente un giorno cominciò a piovere lentamente per uno, due, tre giorni di seguito, l’acqua penetrò e inzuppò la terra e cominciarono ad allagarsi le gallerie scavate dai piccoli anfibi. Era tornata la stagione delle piogge, era primavera; ma era pure passato più tempo del previsto dal loro orologio naturale: mezza estate, l’autunno e l’inverno.

Quando le rane si svegliarono e ripresero vita, tornarono in superficie, si guardarono intorno e si contarono: proprio poche avevano superato il lunghissimo digiuno. Avevano ottenuto la grazia a metà. Prima di salutarsi e riprendere il loro posto la giovane pensò bene di offrire una nuova proposta alle amiche.

– Amiche mie, da qualche anno subiamo la siccità di questo posto, per non ritrovarsi nella situazione che abbiamo appena vissuto, durante la stagione che sta iniziando, perché non riprendiamo le forze perdute ed emigriamo in un luogo più sicuro?

– Sì, sì, sì…-, risposero tutte insieme, quasi in coro.

– No, io dico di no. Sono vecchia e sono nata qui. Qui è nata e morta mia madre ed i miei parenti. Qui sono nati e morti i miei avi. Essi mi hanno lasciato in eredità queste pozze. Perché la madre terra dovrà negarmi di godere quanto hanno lasciato i miei genitori? – contrariò la più vecchia.

– Noi ti auguriamo tanta fortuna, ma abbiamo deciso di partire. Fai bene a seguire quel che ti dice il cuore…-, concluse la giovane intraprendente.

Le rane allora si rifocillarono con abbondanza, poi a salti una dietro l’altra si misero in moto verso il fosso per arrivare al fiume, che raccoglie l’acqua dalla montagna. Quel giorno dalle abitazioni vicine alla piana dei Pozzacci sentirono un gran gracidare fuori stagione. Non era un coro, ma la gente capì che erano grida di addio e di dolore delle rane che si stavano allontanando.

Non c’era più salute e prosperità nella piana dei Pozzacci, nemmeno per le rane. Mancava l’acqua.

Nella piana dei Pozzacci da quel giorno è sceso il silenzio.

28 – Le rane in una notte di luglio

27 – Il rospo zoppo

 

Un rospo chiatto e grosso aveva preso dimorava nell’orto vicino la casa di Luigi. Stava bene, il cibo era abbondante, il fresco pure era tonificante. Luigi poi annaffiava spesso le sue pianticelle: insalata, pomodori, zucchine, fagiolini… Tutti ortaggi che crescevano a vista d’occhio dalla primavera all’estate, quasi in un giardino dell’Eden. Naturalmente il rospo non era solo a godersi questo paradiso terrestre. C’erano lucertole, ragni, coccinelle, farfalle, cimici, bruchi, lumache, bacarozzi sotto terra e tanti altri insetti. Insomma il nostro, oltre alla compagnia, aveva cibo a scelta, in abbondanza. Sarebbe stato felice per sempre, se non gli fosse capitato addosso un incidente sul… lavoro, che lo lasciò invalido e gli rovinò l’esistenza.

Un giorno, a primavera inoltrata, Luigi decise di ripulire l’orto ed i suoi argini dalle erbe infestanti, da quelle spontanee nate ai bordi del vangato, negli stradelli di accesso. Mise in moto il decespugliatore, si bardò degli accessori di protezione e cominciò con quel rumore assordante a frullare tutto quel che era fuori della parte di terra coltivata. Tagliò ortica, rovi, menta, gramigna, trifoglio, cardi, papaveri, festuche, radicchi e bietole selvatiche… I fili dell’attrezzo girando ad altissima velocità tagliavano, tritavano e spianavano quel che incontravano nel raggio d’azione. Alla fine le erbacce non c’erano più, degli insetti, che vi si nascondevano in mezzo, alcuni erano morti con l’erba, altri erano usciti allo scoperto in cerca di un riparo più tranquillo. Tra questi c’era un rospo che da un lato del terreno era uscito a pancia all’aria e si dimenava, anzi spasimava. La povera bestiola non aveva più una gamba posteriore, il filo del decespugliatore gliela aveva recisa di netto. La ferita sanguinava, il rospo faceva movimenti scomposti per riprendere la sua posizione a pancia sotto. Luigi al vedere quella scena, n’ebbe compassione, fermò l’attrezzo e si mise a guardarlo riflettendo se mai potesse fare qualcosa per riparare il danno procurato.

Al punto di come stavano le cose, c’era poco da fare: fermare il sangue e legare la ferita per limitarne la perdita. Prese un filo di refe e legò al limite del taglio. Poi disse al rospo:

– Più di questo non posso e non so fare, nonostante tutta la buona volontà. Però tu continuerai a vivere ai bordi del mio orto; io farò in modo che non ti manchino mai gli insetti per mangiare, senza troppa fatica. Perdonami tanto, so che mi sei stato utile. Non ti avrei mai fatto un torto, tanto meno un danno così, se ti avessi visto prima, se avessi saputo che eri qui…-.

– Grazie delle cure e ti sarò riconoscente per la tua volontà di riparare il male fatto, curandomi le ferite –, rispose il rospo.

– Tornerò a trovarti. Vedremo se il cibo che riesci a raccogliere ti è sufficiente e spero nel buon decorso della guarigione. Auguri -.

Il rospo e Luigi si lasciarono senza rancore: il primo col suo spasimo, il secondo col suo rimorso.

Qualche giorno dopo il dolore era diminuito, il rospo aveva cominciato a cercare e trovare qualche insetto alla portata della sua invalidità. L’uomo fece un sopralluogo per sincerarsi della situazione dell’amico. Lo trovò, s’accertò che non era morto, che riusciva strisciare sul ventre e, quindi, che qualcosa aveva mangiato. Poi gli avvicinò qualche insetto pigro e se ne tornò indietro, salutandolo.

La cosa andò avanti così per diversi giorni: il rospo faticava a muoversi, ma viveva, Luigi si rabboniva la coscienza visitandolo, portandogli da mangiare, confortandolo.

Le visite, lo scambio di notizie circa la salute dell’invalido era diventata una prassi per l’ortolano. Il rospo allora decise di ringraziarlo della contrizione e della dedizione: pregò lo spirito creativo che era dentro di lui, che lo seguiva e l’aiutava, perché facesse un piacere a quel padrone dell’orto pur non richiesto. Poi si nascose sottoterra. Da subito, proprio come per magia, la sua forza propiziatoria affiorò sulla terra e in silenzio lavorò tutta la notte seguente: le zucchine crebbero e anticiparono la maturazione, i pomodori fiorirono rigogliosi, carichi in ogni ramoscello, le patate divennero tutto un bosco di cespugli floridi, i cavoli furono giusti per essere colti. Dove l’anfibio aveva perso sangue l’insalata e le verdure erano tutte belle e già pronte per la tavola. Al mattino seguente il padrone non poté fare a meno di constatare la differenza delle cose da come le aveva lasciate il giorno prima. Si fermò a riflettere: cosa è successo alle mie piantine? Al mio terreno? Un miracolo della natura, forse gli influssi benefici della luna.

Chiamò i vicini ad ammirare tanta meraviglia, chiese aiuto per capire come fosse accaduto il prodigio. Questi pure si stupirono senza darsene spiegazione. Gli chiesero semmai di ricordare quale concime avesse usato.

Insomma per quell’anno tutti fruirono della ricchezza dell’orto di Luigi venuta così in anticipo e con tanta abbondanza senza tanti complimenti. Ma, rimasto solo, a Luigi venne in mente la “storia” che gli aveva insegnato il nonno: “Quando incontri un rospo, guarda se si gonfia e si alza sulle zampe o rimane pacioso e indifferente. Quando si gonfia, ti sta mandando contro una fiatata avvelenata, dallo spirito contraddetto e malefico; quando resta tranquillo vuol dire che accetta la tua presenza, in pace, che non solo il rospo, ma anche lo spirito del bene è a favore tuo. Qualsiasi cosa muove il rospo intorno a te ha i “favori” della sua luna”.

È vero, fu proprio così. Tutte le volte che si erano incontrati nell’orto, il rospo e Luigi, quello aveva sempre celato il suo dolore ed aveva parlato pacatamente, senza odio, nonostante il male ricevuto.

Luigi capì che quel rospo non solo era utile nel suo orto, ma gli portava l’abbondanza.

27 – Il rospo zoppo

26 – La cornacchia e la mantide religiosa

Nel prato davanti casa di Luigi appena falciato uno stormo di cornacchie si sono posate in cerca di grilli, cavallette, bruchi e lombrichi. Siamo nel mese di aprile ed è una bella giornata di sole. L’erba è stesa e gli insetti dal fresco del prato in fiore si sono trovati allo scoperto, privi della difesa offerta dal folto dei fili teneri che lo costituivano. Le cornacchie corrono di qua, saltano di là dietro quegli animaletti che si muovono in cerca di un nuovo nascondiglio sicuro: è tutto un saltellare e tutto un beccare. È una festa (per le cornacchie!). Tanta abbondanza di cibo tutto insieme e fresco, anzi vivo, capita di rado.

Si trovano ugualmente privi di nascondiglio anche qualche lucertola, qualche serpentello e… una mantide religiosa.

Una cornacchia nel corso del suo pranzo all’improvviso arriva a tu per tu con la mantide. Questa ha seguito il movimento delle cornacchie, ha visto tutto quello che è accaduto e sta accadendo intorno a lei, ai suoi compagni insetti vicini e parenti. Su un fusto di pastinaca in posa attende di essere attaccata o di attaccare, all’occorrenza. È consapevole che il suo manto verde come il prato non la mimetizza più. Sta lì ritta a mani giunte – pare, ma in verità quelle mani sono dei fortissimi ganci di offesa e difesa – in attesa dell’attacco della cornacchia che le sta di fronte.

– Beh, che vuoi? –, fa la mantide stropicciando le mani con segnali sconnessi scritti per aria.

– Nulla, nulla. Ora tocca a te. Ho fame. Non ti tratterò molto male. Giusto come ho fatto con i tuoi amici vicini. Un colpo e via -. Così la cornacchia accetta il contraddittorio.

– Se non mi conosci, ci puoi provare, però li vedi questi due ganci, sono le mie mani, ma munite di uncini, che ti possono strappare un occhio o tutti e due insieme; il loro scatto sono due pugni in faccia -, minaccia la mantide.

– Guarda che non saresti il primo boccone che non va giù liscio. Ogni insetto ha la sua difesa ed io sono preparata a qualche graffio -.

– No, allora non hai capito. Guarda che io faccio l’amore con il mio marito una volta sola, perché dopo me lo mangio. Sono cattiva, o meglio, sono feroce anche con gli amici -.

– Che, vuoi mangiare anche me? –

– No, sono cattiva… di brutto! –

– Ho capito. Allora facciamola finita… -, e la cornacchia indirizza un deciso colpo di becco verso la mantide. Nemmeno un attimo e…

– Craaa, craaaa! – stride forte la cornacchia, mentre con lunghi svolazzoni salta da qua e là per il prato senza dare un senso ai suoi movimenti. Svolazza, si rotola e gracchia… Smuove tutto il fieno intorno a sé; gli insetti d’intorno saltano e volano lontani, le altre cornacchie corrono a sincerarsi su cosa sia accaduto all’amica.

Cos’era successo? La mantide, visto partire il colpo, con una mossa ancor più rapida si era attaccata sopra il becco della cornacchia e le aveva piantato tutti i piccoli uncini delle sue mani e delle sue zampe negli occhi e nella testa come in un abbraccio mortale.

– Lasciami, non ci vedo più. Mi fai impazzire dal dolore. Lascia!…-, si lagna la cornacchia.

– Signora cornacchia, che ti avevo detto? È vero, io faccio male, ma tu dici di aver fame ed io devo salvare la pelle. Ci dobbiamo mettere d’accordo per vivere in pace tutte e due in questo prato, altrimenti tu perdi qualcosa -.

– Hai ragione. Perdonami. Se mi accechi, muoio di fame lo stesso. Ti propongo un patto: io ti lascerò tranquilla per sempre, poi dirò del patto anche a tutte le mie amiche e le porterò lontano da questo luogo per lasciarti in pace -.

– Spero che la lezione ti basti. Per questa volta ti credo, ma spiega alle tue parenti cornacchie di stare alla larga dalle mantidi. Siamo brutte e cattive!… -, conclude la mantide e lascia la presa.

La cornacchia si ferma un attimo, riprende fiato, si accomoda le piume sulla testa, poi emette un segnale di pericolo e prende il volo. Tutte le altre al richiamo spiccano il volo e la seguono, lasciando il prato.

È molto tempo che nel prato di Luigi non si vedono più cornacchie. Si sentono gracidare in lontananza. Sarà possibile che un insetto così piccolo abbia messo loro addosso tanta paura?

26 – La cornacchia e la mantide religiosa

25 – Il cuculo ed il bambino

 

Un’allodola aveva sistemato il suo nido in un anfratto tra le zolle di arenaria che dava vita ad un rigoglioso bosco di castagni. Poi vi aveva depositato quattro uova ed aveva iniziato a covarle.

In questo duro lavoro, fatto di tanta pazienza e costanza, l’allodola ed il suo marito si alternavano con turni regolari. Prima covava uno, poi gli dava il cambio l’altra. Allora il primo volava a sgranchirsi un po’ le ali e le ossa, dopo faceva pranzo e procurava il cibo per la compagna. Poi ritornava al nido e glielo serviva. Trascorso il tempo concordato, il maschio riprendeva il posto di cova e partiva la femmina per fare le stesse cose. E così per tutto il giorno, per diverse volte al giorno. Si curavano dal mal di monotonia, si lenivano la fame e si sgranchivano le ossa.

In questo periodo, però, un cuculo seguì i movimenti troppo regolari dei due uccelli coniugati, scoprì il nido dell’allodola e, secondo il suo costume, distraendo per un attimo la coppia, depositò un uovo suo in quel nido, in mezzo alle loro uova.

Si deve sapere infatti che il cuculo non nidifica, non alleva i suoi “cuccioli”, ma depone un uovo nel nido di un suo gollega che sta già covando. Con questo sistema truffaldino e parassitario, pur disinteressandosi completamente d’allevare ed educare i suoi figli, riesce ugualmente ad assicurarsi la discendenza.

Ora, passati ventuno giorni di fatica e pazienza da parte delle allodole, moglie e marito, maturò il tempo della schiusa delle uova e nacquero ad uno ad uno i quattro uccellini implumi. Infine uscì dal guscio anche il piccolo cuculo. Alle allodole genitori cambiò la vita e a quella sedentaria seguì quella di massima frenesia alla ricerca di cibo per cinque piccoli affamati, sempre a becco aperto in attesa di… crescere. Ma il piccolo cuculo, forse per risparmiare fatica ai genitori adottivi, o forse soltanto per il suo istinto egoista, riusciva a trangugiare più cibo ed a crescere più in fretta. Così, dopo pochi giorni di vita, iniziò buttare fuori dal nido tutti i suoi fratellastri.

Con innata perfidia entrava sotto il compagno più vicino, allargava le alucce e lo spingeva fuori, finché quello non cascava dal bordo del nido. Ripeté l’operazione per quattro volte, tanto da rimanere solo, padrone di tutta quella casa fatta di morbidi fili intrecciati.

Un bambino, che tutti i giorni passava di lì per portare le vacche del padrone al pascolo, aveva visto il nido e, curioso, ne seguiva gli sviluppi. Quando si accorse del trafficare a tradimento del piccolo intruso verso i fratelli ed i genitori, ricollocò gli sfrattati nel nido e lo rimproverò:

– Brutto spennacchiato, sei così piccolo e già così cattivo? Butti i tuoi fratelli fuori: moriranno di freddo e di fame, perché i vostri genitori non si cureranno più di loro. Ma poi tu non hai freddo da solo?-.

– Non sono stato io. Io ho più fame di loro, perché sono più grosso e mangio di più. Loro sono usciti in cerca di qualcosa da mangiare -.

– Sei traditore e bugiardo, perché io ho visto quel che hai fatto e come hai fatto. Sei senza cuore perciò io rimetto i tuoi fratelli nel nido e guai a te…-, minacciò il bambino, sistemando alla meglio uccellini e nido, affinché al loro rientro le allodole trovassero tutto a posto.

Dopo qualche tempo il bambino tornò a far visita al nido e trovò la situazione come la prima volta: il cuculo solo ed i suoi fratelli buttati fuori del nido, affamati ed infreddoliti, che arrancavano a becco aperto in cerca di un punto di riferimento. Il bambino brontolò e minacciò di nuovo, ma il cuculo, fece finta di nulla, non rispose, mentre accovacciato si godeva pacioso tutto lo spazio a disposizione. Nel frattempo egli era cresciuto molto di più dei fratelli ed i genitori non facevano pari a viaggiare, a portare cibo per sfamare solo lui senza curarsi degli altri.

Il bambino raccolse tutti gli uccellini sparsi e li depose di nuovo nel nido. Poi costruì una piccola barriera intorno al nido, sicché fosse impossibile al cuculo far saltare il bordo del nido ai suoi fratelli.

Pareva che questa soluzione forzata avesse vinto sull’istinto naturale del cuculo e che tutti i fratelli sopportassero quella convivenza, anche se il cuculo con la sua ingordigia era sempre più grosso e gli altri sempre piccoli.

Un giorno, però, il cane che spesso seguiva il bambino, quando accompagnava il bestiame al pascolo, precedendo il padrone, a fiuto prese la strada del nido ed arrivò prima. Trovandosi davanti quei bocconcini teneri, li annusò, li leccò, poi non esitò oltre.

Da ultimo con una raspata di piede tirò fuori dal nido anche il cuculo. Stava per mangiarselo, quando sopraggiunse il bambino, che aveva intuito un finale tragico per l’esistenza del nido.

Il cuculo dalla carezza del cane aveva riportato una profonda ferita alla schiena. Il bambino capì che il nido ormai avrebbe avuto i momenti contati, se non provvedeva in qualche modo. Decise pertanto di portare il cuculo con sé a casa e di curarlo in gabbia, se mai non fosse morto.

Il piccolo ladro di ospitalità pianse molto, si raccomandò molto, ringraziò tanto dello scampato pericolo e si adattò volentieri alle cure del bambino, pur vivendo lontano dalla vita degli altri uccelli.

La sua ferita si gonfiò, ma presto si risarcì. Egli seguitò a crescere ed a mettere le penne. Era docile come non mai in mano al bambino ed accettava riconoscente ogni tipo di cibo che gli veniva fornito. Se veniva lasciato libero, ritornava sempre sulla mano o sulla spalla del bambino. Questi allora gli insegnò a volare fuori della gabbia. Poi quando fu sicuro che avrebbe cercato il cibo da solo e sarebbe riuscito a volare per lunghi tratti, gli disse:

– Ecco, ti ho salvato, ti ho curato ed allevato. Ora so che puoi farcela da solo. Parti e vola. Torna dai tuoi compagni, ma guarda di essere più onesto con loro -. Il cuculo chinò il capo molle sul gozzo, si mise a piangere e non voleva spiccare il volo.

– Mi sento molto affezionato a te. Sei stato più genitore dei miei. Non so come ringraziarti-.

– Vai, vai, – gli disse deciso il bimbo – senza rimpianti. La nostra vita sarà lunga ed avremo modo di incontrarci di nuovo-.

Il bambino aprì la finestra di casa ed il cuculo finalmente volò. Ma tutte le mattine che seguirono, presto, allo spuntar del sole, quando il cuculo era certo di trovare il bambino a casa, si posava sul ciliegio di fronte alla finestra e lo svegliava al canto del suo cucù.

25 – Il cuculo ed il bambino