28 – Le rane in una notte di luglio

 

Nella piana dei Pozzacci c’è un piccolo avvallamento dove si raccolgono tutte le acque delle colline d’intorno, dei luoghi più elevati che la circondano. Più qua e più là in quei prati, che il lavoro degli uomini nei secoli ha quasi livellato, affiorano piccole sorgenti che alimentano pozze dove si abbeveravano le bestie domestiche e dove oggi si abbeverano gli animali selvatici. Ora le sorgenti sono alimentate poco dalle acque piovane che il tempo ha reso più rare e d’estate spesso le sorgenti sono asciutte: le pozze senz’acqua, gli animali senza bere.

Intorno a queste polle ed a queste pozze prosperava e prospera una vita parallela fatta da piccoli insetti, uccelli in cerca di cibo, anfibi… Ecco soprattutto le ranocchie ed i rospi hanno sempre approfittato di quella frescura per vivere tranquilli con cibo facile e abbondante, per cantare… Il loro canto è sempre stato udito da tutta la conca, ha tenuto svegli e allegri tutto il vicinato e le abitazioni che si affacciano sulla piana dei Pozzacci. Il gracidio iniziava all’imbrunire e finiva all’alba, ai primi albori del giorno, da primavera alla fine dell’estate. Qualche anno fa gli uomini a gara seguivano i primi cra cra della sera da un parte della piana, poi tentavano di indovinare da quale altra parte avrebbero risposto le rane sorelle.

L’estate scorsa non ha piovuto mai nella zona, anche a primavera era piovuto poco. Le colline hanno assorbito poche riserve d’acqua, poi un caldo ed un’afa terribile hanno prosciugato la piana; i cori, sera dopo sera si sono affievoliti, sono diminuiti di numero, finché si sono zittiti.

Era finito l’umido, era finito il cibo, molte rane morivano di fame e di sete giorno dopo giorno. Ma tutte non morirono, qualcuna più giovane trovò il modo per allungarsi la vita.

Cos’era successo, come aveva fatto?

La più giovane rana si accorse della situazione e si rese conto di come si stavano mettendo le cose: presto sarebbero mancati l’acqua e l’umido per tutta la piana. Le rane e tanti elementi di vita sarebbero finiti, perciò bisognava inventarsi qualcosa. Mise tutta la forza in un grido accorato. Con il suo gracidare più forte riuscì ad avvisare anche le sorelle superstiti più lontane: nella notte prossima dovevano venire tutte alla sua pozzanghera, ora la più fresca, per affrontare il problema della siccità e della sopravvivenza; facessero ogni possibile sforzo.

Durante la notte nella piana fu tutto un viavai di rane. Nel silenzio un sommesso fruscio continuo seguiva gli spostamenti dei piccoli esseri che andavano concentrandosi nel punto più basso della radura. Qualche ciuffo d’erba più verde e più alto ne indicava la posizione: si vedeva che l’acqua mancava da poco, ma non c’era più. La terra era fresca per il sopraggiungere della nottata, era nera di fango asciutto, senz’acqua.

– Ci siamo tutte? – all’apparir dell’alba gracidò alto la giovane che aveva preso l’iniziativa.

– Ci siamo quelle che abbiamo sentito il tuo richiamo; quelle che abbiamo avuto le forze per venire…

– Benvenute, amiche mie. Grazie di avermi ascoltato, ma, come vedete, quest’anno la situazione dell’acqua è tragica. Dobbiamo decidere insieme, consigliarci per trovare una via di salvezza, perché senz’acqua presto moriremo e non lasceremo discendenza né qui, nei dintorni. Sono addolorata per quelle sorelle che non ci possono più ascoltare. Noi dobbiamo salvarci tutte insieme.

– E’ vero, noi non avevamo più coraggio di cercare altra soluzione, né di cantare. Aspettavamo la morte come tante altre hanno già fatto, – l’interruppe la più in forma tra il gruppo.

– Mia madre e le mie parenti – riprese la giovane intraprendente – mi hanno raccontato che un asciuttore così non si era mai verificato nella piana dei Pozzacci e senz’acqua non solo noi non abbiamo forza per cantare, ma non abbiamo cibo e lubrificazione sulla pelle. Siamo rimaste in poche e con poche forze. C’è qualcuna di noi che ha una proposta per tentare una via di salvezza?

– Alla mia pozza da tempo hanno cessato di venire a visitarmi i cinghiali. Loro mi smuovevano le zolle fresche, facevano ed allargavano la buca in cerca d’acqua. Pure loro hanno perso la speranza, – commentò un’altra. – Da giorni non vengono più.

– Gli uomini non lavorano più i campi, non hanno fieno, la terra è arsa e senza erba per le loro bestie… -, aggiunse una nuova.

– Insomma che facciamo? – insisté la giovane.

– A due ore di corsa da qui passa un fosso. È sicuramente asciutto anche quello, ma, seguendo il fosso, potremmo arrivare al fiume chissà quando, prima o poi… -, fu la prima proposta uscita dal branco.

– Io direi di sforzarci tutte insieme qui, scavare, scavare la terra più fresca che abbiamo in questo punto, poi mettersi al riparo, a riposo in anticipo, secondo la stagione, e aspettare… -. Fu un’altra idea dalle presenti.

– Aspettare la morte dormendo od aspettare un po’ di fortuna che quanto prima porti la pioggia…, – fu il commento amaro della ranocchia in fondo al branco.

– Le mie ossa, le mie sensazioni dicono che non pioverà per molto ancora. Moriremo tutte, – commentò sconsolata la più vecchia del gruppo.

– Amiche, dunque le proposte sono due: o partiamo in cerca d’acqua molto lontana con la speranza di non morire prima d’arrivare, o ci seppelliamo in anticipo qui nell’attesa dell’acqua o della prossima primavera: scegliete!-

I voti di preferenza furono quasi tutti per rimanere in attesa della fortuna: forse morire, ma con meno rischi e fatica. Si guardarono intorno, mangiarono per l’ultima volta quel che trovarono nelle vicinanze, poi tutte insieme pregarono gli dei di tutti gli anfibi e cominciarono un affannoso lavoro di scavo. Si fecero piccole e sottili per entrare nelle gallerie scavate, dove fino a qualche tempo fa c’era una raccolta d’acqua naturale e si addormentarono in attesa di essere svegliate a sorpresa da un rivo d’acqua prima della catastrofe.

Nessuna contò quanta parte della vita rimase in letargo al fresco sotto terra, ma finalmente un giorno cominciò a piovere lentamente per uno, due, tre giorni di seguito, l’acqua penetrò e inzuppò la terra e cominciarono ad allagarsi le gallerie scavate dai piccoli anfibi. Era tornata la stagione delle piogge, era primavera; ma era pure passato più tempo del previsto dal loro orologio naturale: mezza estate, l’autunno e l’inverno.

Quando le rane si svegliarono e ripresero vita, tornarono in superficie, si guardarono intorno e si contarono: proprio poche avevano superato il lunghissimo digiuno. Avevano ottenuto la grazia a metà. Prima di salutarsi e riprendere il loro posto la giovane pensò bene di offrire una nuova proposta alle amiche.

– Amiche mie, da qualche anno subiamo la siccità di questo posto, per non ritrovarsi nella situazione che abbiamo appena vissuto, durante la stagione che sta iniziando, perché non riprendiamo le forze perdute ed emigriamo in un luogo più sicuro?

– Sì, sì, sì…-, risposero tutte insieme, quasi in coro.

– No, io dico di no. Sono vecchia e sono nata qui. Qui è nata e morta mia madre ed i miei parenti. Qui sono nati e morti i miei avi. Essi mi hanno lasciato in eredità queste pozze. Perché la madre terra dovrà negarmi di godere quanto hanno lasciato i miei genitori? – contrariò la più vecchia.

– Noi ti auguriamo tanta fortuna, ma abbiamo deciso di partire. Fai bene a seguire quel che ti dice il cuore…-, concluse la giovane intraprendente.

Le rane allora si rifocillarono con abbondanza, poi a salti una dietro l’altra si misero in moto verso il fosso per arrivare al fiume, che raccoglie l’acqua dalla montagna. Quel giorno dalle abitazioni vicine alla piana dei Pozzacci sentirono un gran gracidare fuori stagione. Non era un coro, ma la gente capì che erano grida di addio e di dolore delle rane che si stavano allontanando.

Non c’era più salute e prosperità nella piana dei Pozzacci, nemmeno per le rane. Mancava l’acqua.

Nella piana dei Pozzacci da quel giorno è sceso il silenzio.

28 – Le rane in una notte di luglio

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