37 – C’ERA UNA VOLTA… SGRULLA

 

Sgrulla era uno scialacotto caduto dal nido; le penne appena accennate lasciavano ampi spazi di pelle implumi. Stava accovacciato sotto un’auto: era poco sveglio, si vedeva, ma i gatti l’avevano risparmiato. O l’avevano rifiutato? Non era chiaro.
Un uomo lo prese in mano e lo portò in casa. “Vediamo se campa e quanto campa”, pensò. I figli gli furono subito addosso a vezzeggiarlo, a strapazzarlo passandoselo da una mano all’altra. Fu opportuna qualche raccomandazione. Poi, superato il momento della novità, s’acquietò anche la burrasca intorno al povero diseredato.
Dunque, Sgrulla era un rifiuto della società dei pennuti?
La domanda era di rigore. Sì, perché, per quel brutto vizio di sgrullare il becco ogni pochi istanti – da qui il nome -, nemmeno la mamma l’aveva voluto nel nido vicino ai suoi fratelli. Era come se avesse un raffreddore perenne. Per la madre era un menomato. Da lei fu ripudiato a pochi giorni dalla nascita, ma non v’era stato orfanotrofio di pennuti che l’avesse accolto. Era caduto da un cipresso, aveva svolazzato fin sotto un’auto, dove nemmeno i gatti di città l’avevano attaccato.
E sì che di gatti randagi ve n’erano nei paraggi. Insomma aspettava un uomo per farsi portare in salvo, quello stupido merlo. Ma anche all’uomo ed ai suoi, quando presero cognizione del maleducato vizietto, apparve un merlo antipatico, da trattare con le molle.
L’uomo ebbe pietà e lo tenne in casa, comunque, in un ambiente decoroso, dentro una gabbia panoramica tutta per lui, coperto sopra e sotto da un nido caldo di stracci. Lo governò. Il merlo, forse per le privazioni arretrate, non si saziava mai. Ingozzava tutto di tutto, dando ampia dimostrazione della sua natura antipatica. Con il vizio di sgrullare spesso il becco sia che mangiasse, sia che bevesse, sia che avesse già ingoiato Sgrulla metteva su un casino intorno a sé nel raggio di tre metri da ridurre casa, pareti, mobili ed oggetti a tiro ad una schifezza, da far pietà. L’uomo provvide adombrando la gabbia di fogli di giornali, ma intorno a lui rimaneva sempre un ambiente poco decoroso a vedersi. Oltre tutto la bestiola si sgrullava col soffio: “Xsì, xsiìì”, accompagnato dal rumore che si sentiva da lontano. Per un verso si poteva così controllare che era viva, è vero, ma quel rumore non faceva piacere per niente all’udirsi.
L’uomo lo imbeccava e Sgrulla cresceva a vista d’occhio. Insomma presto lo scialacotto s’era ripreso dall’abbandono ed aveva fatto progressi inattesi, escluso togliersi lo strano vizio. Presto imparò a magiare da solo. Gli piacevano molto le ciliegie. Non gliel’avessero mai date. Col suo sgrullo imbrattò di rosso spiaccicato la gabbia, il pavimento, i muri dove arrivava il raggio della sua azione.
Conseguita l’autonomia nel mangiare, aveva pure imparato a comunicare, ad intendere. Imparò a capire l’uomo, che lo interrogava: gli rispondeva. A volte provava a cantare e parlare insieme, ma era stonato. In casa si concluse che ci si sarebbe cavato poco.
“Sgrulla, possibile che non ti togli ‘sto brutto vizio. Sgrulla, fai schifo!”
“Che vizio? Questa è la mia salvezza, non lo sapete?”
“Che vuoi dire? Che salvezza?”, chiese l’uomo.
“E’ per questo vizio che sono stato ripudiato. Mia madre smise subito di governarmi dopo il primo giorno, salvo poi buttarmi fuori dal nido morto di fame: madre degenere!”.
“Effettivamente ci vuole un bel coraggio da parte di una madre buttare via un figlio infelice. D’altro canto non è nemmeno bello a sentire che un figlio parla così della madre, – commentò l’uomo -. Ma perché la tua salvezza?
“Lei viaggiava sempre. Ad ogni ritorno al nido io mi buttavo avanti in mezzo ai miei fratelli, ma lei riusciva sempre a distinguermi e a scansarmi dall’imbeccata. Che le avevo fatto di male? Piangevo, ero sempre a testa dritta, sopra gli altri e con il becco aperto, anche quando i fratelli dormivano. Mia madre aveva deciso di buttarmi e fu irremovibile. Ecco, la mia salvezza sei tu, l’uomo intelligente e di cuore”.
“Insomma, io ho avuto pietà, ti ho raccolto, ti darò tempo, ma perché tu ora non ti sforzi a guarire dal tuo vizio? Sgrulla, fai schifo, sforzati! Così hai condannato noi. Migliorati altrimenti ti ributterò ai gatti”.
L’uomo non seppe mai se il merlo si sia sforzato. Sta di fatto che Sgrulla non perse il suo vizio. Seguitò ad imbrattare quanto sostava nel suo raggio d’azione, sia quando beveva che quando mangiava.
In casa si stancarono di pulire le sue sozzerie e il suo malcostume. A volte ricriminavano il loro atto di pietà nei confronti della bestiola.
“Sgrulla, è arrivata l’ora che ti cerchi una casa nuova, una casa per conto tuo. Ora sei grande…”, un giorno gli comunicò l’uomo.
“Veramente io stavo bene con voi. Ma non vorrei essere troppo pesante da sopportare, se avete deciso di buttarmi fuori di casa…”.
“Sgrulla, in quanto al vizio, te l’ho detto in tutti modi, non sei riuscito a fare un passo per correggerti, però è giunta l’ora che tu torni libero, per il tuo bene. Imparerai a cercare da mangiare e da bere da solo. A primavera sarà l’ora che ti cerchi una merla giovane da aggallare. Poi ti farai una famiglia ed educherai i figli tuoi. Vedrai com’è dura…”.
“Non ho molta fiducia che una merla mi accetti, visti i precedenti. Eppure mi sentirei portato ad essere amorevole con tutti. Ho imparato da voi. Mi sforzerò ancora ad eliminare i miei difetti…”.
Una mattina Sgrulla fu invitato sulla spalla del suo salvatore. “Andiamo…”, gli disse questi e prese la direzione dell’orto.
Giunto all’orto l’uomo si sedette su un ceppo e gli mostrò la natura libera intorno. Davanti a loro v’era un laghetto, poco più che una pozzanghera maltenuta. Per chi non l’aveva mai vista tanta acqua fresca, era un richiamo, un invito a farsi un bagno ristoratore: “Che fai, ci pensi? Buttati e divertiti – lo incitò l’uomo -. L’acqua è tua, ti aspetta. Vedi come è bella la libertà?”
“Ma davvero dici? Mi posso lavare tutto insieme come non ho mai fatto?”
”Sì, è un ordine. Vai, lavati, merlo stupido…”.
Sgrulla si buttò con un solo svolazzo. Cominciò a bagnarsi ai bordi della grande pozza. Entrò sempre più dentro, fece mille abluzioni finché fu tutto mollo. Era tornato piccolo, un pulcino con le penne tutte appiccicate. Era diventato più brutto di prima. Poi tentò di tornare sulla spalla dell’uomo.
“Sgrulla, no, vattene. Mi bagni tutto d’acqua sporca. Stai più là. Ora hai capito cos’è la libertà? Quando puoi scegliere il buono oppure no? Ma sappi che il mondo non è tutto bello e buono come lo vedi qui.”
“Andiamo bene! non finirò mai di stare attento?” S’interrogò preoccupato il pennuto.
“Ascolta che mi spiego meglio. Questo orto è mio e qui potresti fare come ti pare, ma… la vita di un merlo stupido potrebbe pure finire qui, perché qui intorno v’è un bosco – lo vedi?-, dove sono a riparo tanti altri animali, dove d’inverno fa freddo, d’estate fa caldo… Gli altri animali non tutti saranno amici tuoi. Alcuni, quando avranno fame, mangeranno gli altri, anche i merli stupidi. Sveglio, dunque! Dormi su due piedi, sempre pronto a volare, lontano da chi si arrampica, nascosto dalle fronte per chi vede dall’alto. Io te l’ho detto. Ora vado. Domani tornerò a trovarti, ma non per cantare al funerale che finora ti ho evitato.” Fatte queste ultime raccomandazioni, l’uomo si commosse e lo lasciò solo.
“Lo sapevo, lo sentivo che mi volevi bene, anche se non facevo nulla per meritarmelo. Torna presto e se avrò imparato a cantare e fischiare come gli altri merli, domani canterò con te la libertà che fino oggi non conoscevo. Ciao”, chiuse il merlo.
Il giorno dopo l’uomo tornò a far visita all’amico: non era all’appuntamento. Cominciò a chiamarlo, a fischiare: “Sgrulla, Sgrulla, dove sei? Sgrulla, vieni qui.”
Guardò in giro, poi posò gli occhi vicino, nell’orto, sulle piante li intorno e constatò che tutti gli alberi da frutto erano carichi di bocci: il melo, il pesco, il pero, il nespolo, i ciliegi, perfino le rose, tutti pronti a fiorire. “Ma come? È fredda la stagione. È inverno, perché germogliano e fioriscono ora le mie piante? Siamo fuori stagione, i frutti non allegheranno. Come è strana la natura. Perché il miei sì e gli altri no? Però che meraviglia! Soltanto il mio orto è fiorito. Vuoi vedere che Sgrulla ha i piedi magici?”, si compiacque l’uomo.
Erano fioriti tutti rami degli alberi dove Sgrulla aveva posato i piedi. Da lì si poteva intuire che Sgrulla aveva svolazzato tutto il giorno da un ramo all’altro nell’orto del suo salvatore e non s’era allontanato da lì nemmeno la notte, quando lo scorse una civetta.

 

 

37 – C’ERA UNA VOLTA… SGRULLA