44 – La gazza ladra

(Dedicato a Renata)

Nel 1947 ero un regazzino, come si dice. Fu l’anno che andammo contadini alla “Corsica” nel poderetto di Silio Olivi. In famiglia eravamo in quattro in una casa grande grande tutta per noi, con la luce elettrica in tutte le stanze. All’Olmi avevamo luce a candela. 

Ci trovammo bene. Il vicinato ci volle bene: i miei erano giovanissimi con il babbo di ventitré anni scarsi. Cominciava un’avventura per tutti.

La moglie di Silio era la maestra Iole di Casteldelpiano. Lei fino ad allora aveva insegnato a leggere e scrivere ai bambini delle borgate vicine: Casa Dondolini, Casa Belardi, Casa Belardetti, Monte Calvo, Canalone. 

Iole era una di quelle maestre che facevano scuola in casa. Non era dipendente dello Stato, ma veniva pagata dallo Stato secondo quanti ragazzi superavano l’esame pubblico di fine corso. Qualcuno di quegli alunni è ancora presente tra noi e ha superato bene anche l’esame della vita. 

Dunque Silio e la famiglia lasciarono casa a noi e si trasferirono a Samprugnano. La maestra lasciò una stanza piena di oggetti per la didattica compreso la lavagna, i gessi e qualche giocattolo del figlio. Subentrammo noi, ma quelle cose nessuno le reclamò più (e forse sono ancora lì, perché Silvano, ultimo padrone di quelle mura, non ha cambiato nulla).

Questo era per ricordarmi che Iole era un tipo di donna piccola e magra, fine, signorile come a quel tempo ve n’erano poche a Selva. Veniva dal paese, ma non si risparmiava nelle faccende di casa. Alcuni anni prima che arrivassimo noi, il figlio Rodolfo aveva cavato un nido di gazzera e ne aveva allevata una. L’uccello era cresciuto domestico, o quasi. Trovava la finestra di casa aperta: andava e tornava, prendeva confidenza con chi vedeva più spesso, specialmente del vicinato. Si accostava a chi la chiamava e accettava volentieri i complimenti, qualcosa da mangiare, perché era ingorda e ghiottissima. <<Cecca, vieni qua; Cecca, prendi questo…>>. Tutti la chiamavano Cecca e lei capiva e obbediva, a modo suo: due svolazzi e si posava in attesa del premio.

Iole un giorno s’accorse che le mancavano le forbicine da sarta. Incolpò il figlio. Lui si dichiarò innocente, ma lei a quelle forbici teneva tanto, erano comode per i lavori di rifinitura: brontolò, minacciò, scongiurò il figlio di cercarle, magari con il suo aiuto; promise che gli avrebbe risparmiato le botte…

Le forbici non vennero fuori. Dopo qualche tempo sparirono di casa anche altri piccoli oggetti, soprattutto lucidi o nuovi. Fu allora che Iole collegò tutte le sparizioni all’ospite. In casa si cominciò a seguire di più i movimenti della gazza e quando veniva trovata sul fatto, veniva brontolata.

<<Cra, cra, cra…>> rispondeva lei e svolazzava per casa, magari facendo altri danni e dimostrandosi offesa. 

Ci fu un tempo che in famiglia la rimproveravano tutti e lei stava alla larga, dava meno confidenza, era proprio offesa. 

Fu a questo punto che divenne più maliziosa e cominciò a nascondere anche le cose più comuni e meno lucide, meno usate. Poi si fece più aperta alle amicizie con i vicini e cominciò a entrare anche nelle loro case e… a rubare cose preziose pure a loro.

Ad un certo punto anche i vicini si risentirono, la brontolarono, mentre la allontanavano da casa. Sì, e vero, a tutti era simpatica, rispondeva ai richiami, ma dovevano tenere il punto e redimerla dal vizio di rubare. Lei effettivamente girava più alla larga, ma quando si affacciava a una finestra e guardando dentro scorgeva un oggetto luccicante, la sua mania riaffiorava, la tentazione superava ogni minaccia e ricadeva nel peccato.

Le finestre dei padroni e quelle degli amici a una a una si chiusero in virtù della precauzione, la gazza rimaneva più tempo fuori, sostava di più sugli alberi di fronte a casa. 

Nel periodo della nidificazione cominciarono a circolare in quelle stesse piante altre gazze, forse di sesso diverso. Sta di fatto che un giorno la nostra gazzera non si vide più, non rientrò più a casa di Iole a prendere il cibo, non rispose ai richiami, non tornò a dormire nella sua gabbia. In famiglia e nel vicinato si pensò al peggio. Forse un altro animale rapace aveva approfittato della sua docilità?

Rimasero male tutti. Iole e Rodolfo conclusero che, se fossero stati più tolleranti, non si sarebbero privati di quella piccola e vivace compagnia. Ma poi a malincuore si dettero pace e pensarono che la gazzera aveva fatto bene a mettere su famiglia.

A primavera dell’anno seguente Rodolfo riprese la “caccia” ai nidi, come facevano da sempre i ragazzi della “Corsica”. Proprio nel fosso che passava a un centinaio di metri da casa notò un viavai di gazze insolito; si appostò nelle vicinanze e aspettò. Scoprì che due di loro avevano preparato il nido su un grande alloro verde lì in mezzo al fosso. Si avvicinò. Non aveva intenzione di prendere i piccoli, ma si avvicinò per vedere, forse troppo. Una gazza con grandi svolazzi gli andò contro, alla faccia: <<Cra…cra… cra…>>, più là un’altra: <<Cra…cra… cra…>> mentre lo minacciava con il becco e con le ali verso il viso.

<<Cecca, sono io, non voglio niente. Ho voluto vedere la tua nuova casa e la tua famiglia. Cecca, sono contento per te. Me ne vado, sì, me ne vado.>> Si voltò e prese a tornare indietro. La gazza più vicina lo seguì: <<Cra,.. cra… cra…>> fin sotto casa.

Rodolfo non capì se era per ringraziarlo o per assicurasi del suo allontanamento dal nido, ma gli fu chiaro che aveva ritrovato Cecca.

Davanti alla casa di Silio e Iole stava un tiglio che era cresciuto molto, troppo. Faceva ombra alla casa e rubava troppo sole da mattina a sera durante la bella stagione. La casa pareva più buia, più umida. Forse era il caso di riprendersi la luce necessaria: si decise di abbatterlo.

Sega, accetta e pennato furono gli attrezzi approntati e una mattina a buonora Silio con l’aiuto di altri uomini tagliarono il grande tiglio. Quando l’albero fu a terra e cominciò la spezzatura, da mezzo ai rami riapparvero forbici, pettini, anellini, un fischietto, pezzetti di vetro e aghi da sarta, tanti aghi di tutte le forme e grandezze: riapparvero le cose più impensate, dimenticate, nascoste nelle diramazioni, appese ai bronchi secchi. 

Lì c’era tanta roba e non soltanto sua. Iole chiamò le donne del vicinato, perché venissero a riprendersi le loro cose: <<Oh, ‘sta mascalzona!… Guarda quanta roba ha nascosto senza farci nulla>> si meravigliarono e quelle che riconobbero i loro oggetti, se li ripresero.

Così quel giorno tutti ripensarono alla gazzera ladra, alla Cecca.

Iole fu contenta di ricordarla, anche lei insieme agli altri le disse: <<Mascalzona…>> ma era per perdonarla. 

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