8) IL FONTANILE DI CASA BERNA Tra sogno e realt

Casa Belardi è un agglomerato di case che oggi fa parte della borgata della Corsica poco dopo quella di Monte Calvo. Una casa più moderna si stacca di circa trecento metri dal gruppo. A metà strada fino agli anni sessanta esisteva un piccolo fontanile con un pisciolino d’acqua freschissima. In quegli anni fu distrutto per rendere quella strada di collegamento più agibile agli autoveicoli. Tanto, si pensò, l’acqua è già nelle abitazioni e ristrutturarlo è un costo inutile. Oggi l’acqua della sorgente in dispersione ha formato un acquitrino più in basso, dove un tempo c’era l’orto di Attilio Olivi. Vicino alle case è stato ricostruito un piccolo fontanile alimentato dall’acquedotto comunale. Quello antico, però, abbandonato, non è stato distrutto completamente, ma nessuno quaranta anni fa ricordava più la storia di cui era al centro.

Casa Belardi nei catasti antichi è detta Casa Berna. Angela figlia di Berna – Bernardino – dei Poggi intorno al 1670 si era sposata con Domenico Bargazza di Monte Calvo ed era venuta ad abitare qui. Berna, rimasto vedovo e solo, si trasferì vicino alla figlia e vi costruì una casetta. Poco distante dall’abitazione, tra grossi scogli, veniva alla luce una sorgente freschissima. Berna l’adattò a fontanella per gli usi di casa, ma pure per il suo ristoro. Infatti nei giorni di calura estiva era solito rigenerarsi all’ombra di un castagno le cui fronde si stendevano fin sopra la sorgente. Un giorno Berna, ormai vecchio, a quell’ombra si addormentò profondamente. Si fece notte e non si svegliò. Il fresco divenne freddo. Il cane ed il gatto, unici compagni della sua vita, lo andarono a cercare e, trovatolo sdraiato sul suolo, inerme, gli si posero accanto, lo vegliarono e lo riscaldarono. La figlia ed i parenti si accorsero del suo mancato rientro a casa e si misero alla sua ricerca. Finalmente rintracciarono le bestie e trovarono lui, che non dava segni di vita. Era buio, non sentivano, né vedevano il respiro, sicché, dopo qualche tentativo di rianimazione, si dettero pace e lo piansero morto. Lo portarono a casa, sul letto ed il mattino successivo avvisarono i conoscenti per le onoranze. Anch’essi lo vegliarono per tutta la giornata ed a sera lo spostarono sulla lettiga per il rito funebre. Ma qualcosa in questi ultimi movimenti toccò un punto sensibile di Berna, che proprio come da sonno profondo riprese conoscenza. Stupore, incredulità. Allora tutti si assicurarono che stesse bene, poi tornarono alle loro case e raccontarono cosa era accaduto a Berna. Pochi si fermarono a chiedere a lui che era successo. A quei pochi Berna raccontò la sua giornata di sonno. Forse una bevuta d’acqua diaccia, forse una congestione (oggi diremmo), Berna sentì freddo e si accartocciò su se stesso. Ricordava solamente di aver viaggiato tanto, di essersi visto giovane con l’immaginazione di quei tempi. Aveva sentito dire che ai Poggi, cercando tra i boschi bastava bussare dove la terra risuonava a vuoto e scavare, perché da lì venisse fuori una tomba antica piena di tesori. Berna nel suo viaggio aveva bussato e scavato sotto un enorme faggio, da cui, dopo aver trovato un piccolo cunicolo, era entrato in una grande caverna. L’aveva illuminata con una lanterna che aveva con sé ed ai suoi occhi era apparsa una visione stupefacente: una carrozza tutta dorata pronta per essere aggiogata da quattro cavalli, collane di perle, gioielli appesi dovunque, recipienti ricolmi di brillanti ed oggetti bellissimi sul carro e ai cantoni delle volte. Nulla fuori posto secondo un ordine stabilito chissà quando e da chi. Era certamente la tomba di una gran regina dei tempi antichi. Berna era uscito, era andato a cercare aiuto nei suoi familiari ed aveva portato tutte quelle ricchezze a casa. Era divenuto ricco, aveva arricchito i parenti ed il vicinato, che per riconoscenza tutti i giorni gli apparigliavano la carrozza dorata e lo scortavano ovunque volesse andare, come un gran principe. Quella carrozza era morbida e ovattata, tanto che viaggiava senza scosse, né frastuoni. Né si sentiva, né si vedeva. Era un bellissimo sogno.

Berna ad ognuno, che lo avvicinava, raccontava il suo vissuto da “morto”, ma la cosa non durò per molto. Infatti dopo qualche mese morì di nuovo e questa volta senza risveglio. I parenti accolsero le condoglianze dei vicini, poi lo caricarono sulla lettiga e lo accompagnarono a seppellire.

Subito dopo circolò la voce che i parenti sotto il pagliericcio di Berna avevano trovato ogni bendiddio: soldi, oggetti preziosi, ori e brillanti… Così avevano lasciato la borgata ed erano spariti. A loro ricordo era rimasta solo Casa Berna, vuota.

8) IL FONTANILE DI CASA BERNA Tra sogno e realt

7) IL FOSSO SERPENTAIO. La riparazione del conte Guido

La sorgente del Fosso Serpentaio è fresca e abbondante. Sgorga al termine di una stretta valle, ai piedi della scoscesa del monte, quasi ad indicare che le acque del Monte Calvo si raccolgono tutte lì. In passato la fonte era forse ancor più ricca ed il fosso sempre in piena di acque precipitose. Secondo la leggenda il nome attribuito dagli abitanti non deriverebbe proprio da un serpente, ma da qualcosa di più grosso e pericoloso. Forse un alligatore.

I fatti sono narrati così. Intorno a Cinquecento, passando nella zona e attraversando il Fosso ai contadini sparivano pecore, capre, vitelli. Perfino un frate dal vicino convento avventuratosi in preghiera fino lì, pare non sia più tornato indietro. Le voci della presenza di un mostro orribile e feroce lungo quel Fosso si sparsero veloci ed arrivarono lontano. Poi qualcuno, che ebbe la sfortuna di capitarvi e la fortuna di tornare indietro, raccontò e descrisse di che si trattava. Naturalmente la paura e la richiesta di soccorso non mancò di arrivare al conte, il padrone dei terreni, degli uomini, degli animali e delle cose.

La leggenda prosegue dicendo che il conte, venuto a conoscenza dei fatti, decise di intervenire in prima persona. Quindi armatosi di tutto punto e bardato di tutto punto il suo destriero, si portò sul posto munito di un grande specchio a forma di scudo e di una lancia nella cui cima era uncinato un agnello vivo. Dopo aver percorso un tratto dell’argine del fosso il condottiero venne in contatto dell’orribile bestiaccia, che, attratta dalla possibile compagna qual era la sua figura riflessa nello specchio, si avvicinò fino ai piedi del cavallo. Il cavaliere allora eccitò l’alligatore con l’esibizione dell’agnello in movimento e, all’apertura delle fauci di quello, l’arpionò in gola deciso e sicuro. Quel conte con il suo trofeo fu festeggiato e celebrato dai suoi concittadini.

Era a quei tempi conte, comandante e padrone di Santa Fiora Guido Sforza, nato nel 1441 e morto lì nel 1508. Guido fu il primo Sforza, vero conte di Santa Fiora. Amministrò e difese bene la contea, fece molto del bene alla popolazione, sicché la storia parla di lui come di un vero principe illuminato e benvoluto. Alla Selva costruì di fondo la chiesa ed il convento della SS. Trinità, vi portò i Frati Minori Francescani a regolare la vita religiosa della zona. Anzi in quella chiesa, oltre a costruirvi una cappella riservata alla sua famiglia, volle essere sepolto al termine dei suoi giorni. Sicuramente il conte nell’ambito delle ristrutturazioni, degli ammodernamenti della sua città e del suo castello avrà munito questo di difese naturali e strategiche aggiornate ai tempi, per cui non sarà mancato qualche fossato pieno d’acqua, dove nuotavano di guardia alcuni alligatori. Qualcosa di esotico avrebbe di sicuro bene impressionato gli amici pari grado che venivano a fargli visita. D’altra parte esiste la testimonianza di Silvio Piccolomini, prossimo papa Pio II, che, dopo una visita al giovane Guido ed alla sua città nel 1457, ci descrive il suo buon governo e… la Peschiera ricca di saporitissime trote. Dunque niente vieta che un piccolo coccodrillo sia uscito dagli allevamenti del castello, sia disceso per la Fiora fino a valle per poi risalire quel fosso fin dove era acqua abbondante e lì fermarsi. Inoltre nessuno può escludere che quel “serpente” per procurarsi il cibo abbia dovuto arrecar qualche danno ai pastori confinanti. Perciò, se ci pensiamo bene, uccidere il “serpente” era il minimo che potesse fare lo Sforza, visto che i suoi allevamenti dalle paratie insicure erano stati certamente la causa dei danni al bestiame.

A riprova del racconto viene conservato in una piccola vetrina della sacrestia del convento della SS. Trinità un osso mascellare – frontale di alligatore, quasi ex voto donato dal Conte Guido. Si tramanda pure che a ricordo del fatto la mandibola della stessa bestia sia stata inviata alla SS. Trinità dei Monti a Roma, chiesa contemporanea a quella della Selva ed allora retta dai Frati Minimi di S. Francesco di Paola sotto la protezione dei reali di Francia. Ma di quest’ultimo reperto oggi non esiste traccia.

E dunque possiamo datare le radici della leggenda dopo l’anno 1500, a meno che non mettiamo in dubbio l’esistenza stessa di quell’alligatore dalle parti di Santa Fiora. Poteva sopravviverci, poteva avere la forza di scappare e mangiare un alligatore a quelle latitudini, a quell’altimetria, a quel clima?

Ora proviamo a tradurre la leggenda in storia.

Se ripuliamo la prima degli orpelli di abbellimento e ne seguiamo la traccia, di certo, a causa di quella bestiaccia sconosciuta, sarà sparito qualche animale che pascolava nelle vicinanze del Fosso a qualche povero pastore. Questi sarà corso a raccontare il fatto ed a lamentarsi al vicino convento. I pastori sapevano che i loro frati erano le persone più vicine al potere, che potevano aver accesso al castello ed essere ascoltati. Con altrettanta certezza i frati avranno riportato le lamentele al conte. Di sicuro il Conte “conosceva” la fondatezza delle lagnanze e adottò delle mosse ben visibili per ovviare all’inconveniente: bardatura del cavallo, segni religiosi, mezzi di scena.

Dunque il conte s’armò, si recò al Fosso, uccise l’alligatore e ne portò il reperto ai frati.

I frati erano proprio il mezzo di collegamento tra la plebe e il conte e durante le loro prediche domenicali avrebbero certamente illustrato i fatti. Erano persone degne di fede, credibili. Il conte questo lo sapeva. “Uomini devoti della SS. Trinità, il conte ha ucciso la bestia orribile, il flagello delle vostre greggi. Ora dovete stare tranquilli e lavorare tranquilli. Ecco, la testa di quella bestia feroce è qui da noi, non abbiate più paura. Viva il nostro conte”.

Di sicuro, se i fatti non avessero avuto fondamento, se non avessero avuto radici così pertinenti ai luoghi, i frati non si sarebbero prestati a conservare un reperto in sacrestia che sa di superstizione.

7) IL FOSSO SERPENTAIO. La riparazione del conte Guido

6) FONTE SANETTO. Lo spirito purgante

La struttura pervenuta, datata 1925, fa supporre un rifacimento su preesistente fonte più “povera”, ma di ormai consolidato servizio ed uso pubblico. La sua disposizione ed il suo nome derivano da Sanetto, o Sano (che sta per Ansano) Sanetti, vissuto tra il 1570 ed il 1625, menzionato nei registri parrocchiali come avo della famiglia. Si può arguire, quindi, che Sanetto abbia messo a pubblico uso l’acqua di una ricca sorgente nei suoi terreni.

La famiglia de Sanectis viveva a “Monte Calvo”, oggi Casa Danti, località a nord del convento della SS. Trinità. Tra le poche di Selva ad avere il cognome già nei primi atti parrocchiali del 1626, teneva ampi possedimenti di terreni ed era benestante, tanto che insieme alla famiglia Bargazzi (poi Sabbatini) pure di Monte Calvo, cui la univano stretti legami parentali, era unica a possedere la tomba di famiglia in chiesa: “Si diede sepoltura al cadavero di Maddalena figlia di Dionisio Sanetti… e fu sepolta nella sepoltura gentilizia sotto la loggia della chiesa maggiore (30.8.1743)”

Figlio di Sanetto fu Dionisio, vissuto dal 1598 al 2.8.1682, detto Nigiotto, vero patriarca sia perché insieme alla moglie Vittoria Mancini visse 84 anni lui (e 90 lei), età veneranda soprattutto per i loro tempi, sia perché fu il primo ed unico ad avere la qualifica di “caporal”, segno di gran rispetto nella comunità e di una non precisata esperienza. I Sanetti ebbero pieno sviluppo nel secolo XVII. L’ultimo della parrocchia fu Pier Francesco di Giovanni morto nel 1773 a 40 anni.

La Fonte di Sanetto, munita di due cannelle versanti su lavello in peperino, di abbeveratoio e di lavatoio, tutto poggiante su parete di fondo triangolare (a capanna), murata in sasso a vista, ha dissetato la popolazione di Casa Dondolini, di Monte Calvo ed i passanti fino al 1980; poi, a seguito della fornitura d’acqua diretta nelle abitazioni, è stata abbandonata.

Caduta in rovina, è stata derubata delle pietre di rifinitura in peperino.

Oggi, col contributo del Comune di Santa Fiora, è stata ristrutturata dall’iniziativa e dal lavoro dell’Associazione Culturale per la Selva. (Fin qui si legge in un cartiglio affisso nell’agosto 2008).

Anticamente chi voleva andare dalla Selva bassa a Casa Dondolini, all’altezza delle Sambucaie lasciava la carrareccia che portava a Santa Fiora ed entrava in una mulattiera, che, attraverso una antica faggeta, finiva poco sopra Fonte Sanetto, poi si immetteva in un’altra faticosa carrareccia fino a Casa Dondolini.

Oltre cento anni fa Le Sambucaie, piccola borgata coperta dai castagni, era abitata dagli Amaddii. Antonio Romualdo, un Amaddii del luogo, un giorno di dicembre, preso dallo sconforto o preso da chissà che, con una fune in mano s’avviò per quella mulattiera, s’allontanò dalle case e si fermò sotto la fronda di un faggio secolare. Ripensò un attimo alle sue cose, guardò un ramo alto e robusto, poi deciso salì sopra un sasso dalla forma strana che usciva pulito e slanciato dalla terra. Da un lato fissò la corda al ramo e dall’altro se la legò al collo e si buttò giù…

Era un operaio, celibe, di 42 anni.

Nessuno vide, nessuno sentì nulla. Fu ritrovato dopo diverso tempo e si dice che la cosa impressionasse tantissimo i soccorritori.

Il parroco annota che “Ogni tanto dava segni di pazzia, finalmente s’impiccò”. Ma precisa, quasi per lasciargli aperta la via del Purgatorio, “S’era confessato da pochi giorni”. Comunque quella terribile impressione si tramandò tra la gente. La mulattiera all’altezza del sasso strano fu scavallata. Il luogo veniva evitato in segno di rispetto. Lì era sempre scuro, il sole rimaneva sempre lontano, perché le altissime fronde dei faggi gli impedivano di arrivare a terra. In quel punto il giorno era più corto, perché l’alba arrivava più tardi ed al tramonto era già buio. Un’ombra nera di giorno e di notte s’aggirava nei paraggi curva sulla schiena, come oppressa dai suoi pensieri, senza mai scoprire il volto. Chi passava lì vicino raccontava di aver visto un grosso ramo di faggio muoversi da solo, di aver sentito un soffio nell’aria che non era vento. La sensazione poi era diversa per chi percorreva la strada da Le Sambucaie a Fonte Sanetto, mentre in altro modo la raccontava chi veniva da Fonte Sanetto verso Le Sambucaie. La gente dava anche un’interpretazione a quelle sensazioni: secondo che quello spirito da casa andava verso la morte o dalla Fonte, luogo di benessere e di purificazione, tornava verso il luogo dello spirare l’ultimo alito.

Oggi nessuno percorre più la mulattiera e nessuno ha più percepito le sensazioni di quello spirito scontento. Forse, vagando, anche Romualdo ha incontrato Marcone ed il ragazzo, pure loro in cerca di pace da quelle parti, per quei boschi. Finalmente tutti e tre si potranno scambiare due parole.

6) FONTE SANETTO. Lo spirito purgante