24 – Il bue ed il grillo

In mezzo alla campagna c’era un assolato e bellissimo prato verde. Era primavera, l’erba era freschissima, chiazzata di fiori dai più variopinti colori. Animali e insetti erano sparsi là in mezzo, ognuno affaccendato a sfamarsi di quel tenero germogliar della natura o semplicemente a godersi il fresco dell’erbetta appena spuntata, bagnata di rugiada. Vivevano felici così tutti insieme.

Anche un bue ed un grillo erano lì per questi motivi e si trovavano a pochi passi l’uno dall’altro: uno mangiava e l’altro, uscito fuori dal nascondiglio di un buco in terra, cantava.

Il grillo gorgheggiava da mattina a sera ed i suoi fratelli sparsi qua e là gli facevano il coro, rispondevano. Insomma per tutto il giorno metteva su una cantilena che annoiava, anzi faceva girare le scatole al bue che alla fine si stufò, s’irritò, smise di mangiare. Quell’interminabile serenata gli mandava pure di traverso il boccone, lo rendeva nervoso, non riposato, come pareva e avrebbe dovuto, invece, stando in mezzo a quella rigogliosa natura.

Ad un tratto in uno scatto d’ira il bue s’avvicinò al buco del grillo e con uno zoccolo dette due raspate che spianarono tutto, portarono via erba e terra tanto da rendere irriconoscibile non solo la casa al grillo, ma pure il panorama di riferimento dove questi si trovava un attimo prima.

– Così la fai finita di tormentarmi tutto il giorno con questa lagna -, disse il bue a danno concluso. Ma il grillo, che fortunosamente s’era salvato da quello sfogo e da quella violenta furia, gli rispose:

– Tutti sanno che sei la bestia più pacifica e tollerante del mondo, perché hai riservato tutto il tuo odio contro di me? Io sono qui perché è festa e faccio festa. Non vedi quanta festa intorno a noi ha steso la natura in questi giorni di primavera?-.

– Ho visto la primavera, ho sentito il richiamo della natura, ma ho sentito pure che tu da stamani con quel cri cri insolente e petulante mi hai rovinato il godimento di tutte queste bellezze, il mio riposo e la mia festa -.

– Oh, ma allora proprio non vuoi capire di startene calmo e pacifico. Scusa, sei un bue o sei un toro?-.

– Che vuoi dire? Io sono un bue da lavoro, da fatica. Questo sarebbe il mio tempo di riposo, se tu non me lo guastassi!-.

– Insomma, scusa la battuta, di brutto non hai solo le corna… se agisci e fai del male al prossimo solo per istinto, per nervosismo-.

– Tu non sei intelligente, né ragionevole, secondo me. Ti affatichi da mattina a sera per rendere allegri gli altri, per quanto dici. Ma chi te l’ha chiesto? Alla fine che ci guadagni, che concludi? Sei sempre magro e piccolo: tutta voce e basta! La devi fa finita, la devi piantà come si dice tra noi -.

– Tu invece sei grande e grosso, ma di intelligenza limitata pure tu. Che ci fai con uno come te? Giusto il duro lavoro dei campi -.

– Tu non sei abile nemmeno a quello. Sei noioso, mangi a ufo, campi poco e rompi molto. Fai tanti figli, ma tutti pari a te noiosi-.

– Io, ti ho detto, sono allegro, porto primavera, porto allegria ai vicini-.

– Tu sei inutile, io sono utile e necessario ad alleggerire il lavoro e la fatica dell’uomo -.

– Gli sei tanto utile che poi alla fine ti ringrazia servito sul piatto da pranzo come bistecca…-.

– Tu non sei utile nemmeno a quello, sei utile giusto come becchine alle galline…-.

La lite andava per le lunghe, nessuno si arrendeva. Da un momento all’altro poteva sfociare in tragedia, tanto che qualcuno pensò bene di intromettersi:

– Basta, a voi due, di litigare. Mangiate, cantate e zitti -, intimò loro un corvo nero, che dopo uno svolazzo si fermò in mezzo -. Che avete da litigare, che cos’è che non va? Qui altro che pace agreste, oggi…- e come vide il grillo a blaterare davanti alla sua casa distrutta, cominciò ad inseguirlo a saltelli. Il grillo s’accorse del pericolo imminente e con pari salti a destra e sinistra per disorientarlo, tornò a nascondersi nell’erba fresca. Senonché prima di zittirsi definitivamente ebbe la forza di stridere a voce alta:

– Senti, amico mio. Non litighiamo più. Smettiamola qui. Siamo neri ambedue. Abbiamo le corna ambedue. Io invito te e tutti coloro che mi ascoltano a vivere in pace e più allegri. Sdrammatizziamoci la vita per campare più a lungo possibile, senza nemici…-. Gracchiolò quest’ultimo pensiero sottovoce, riferito, al vicino inseguitore, prima di zittirsi definitivamente. Poi si fermò ed aspettò che l’uccellaccio tornasse sui suoi passi con propositi più pacifici.

Allora il grillo voltò le spalle al bue e si mise a lavoro per ritrovare le tracce del suo buco.

In effetti una briciola alla volta riuscì a spostare tanta terra che era una montagna rispetto al suo corpo. Paziente come un bue, forte come il bue, rifece la sua casa.

Il bue, che si era sfogato, ora tornato pacioso, non disse altro. Trattenne le sue ulteriori opinioni, allungò il passo e cambiò campo d’erba…

Ragionando, con la collaborazione di un possibile danno più grande, i due ritrovarono la pace e il modo giusto di convivenza.

24 – Il bue ed il grillo

23 – La volpe e le galline

Una volpe di giorno stava sempre nascosta in una tana che si era scavata nel bosco. La tana era tra i sassi e scendeva nel sottosuolo profonda, era invisibile ed inesplorabile se non a lei ed ai suoi piccoli. Le fronde verdi degli alberi piegate fino a terra completavano la copertura del sito per cancellare ogni punto di riferimento. Lì curava e allevava la famiglia.

Quel bosco circondava un podere molto esteso. Il contadino possedeva molte bestie nel suo podere. Alcune gli servivano per aiutarlo nei lavori dei campi, altre gli erano d’aiuto al sostentamento della casa, come le pecore e le galline.

A proposito di galline, il contadino era consapevole che, data la vicinanza del bosco, esse erano in continuo pericolo: altri animali nascosti lì potevano trovare ristoro, facendo visita al suo pollaio. Il contadino, perciò si premunì, circondando il grande pollaio con un ancor più grande recinto a rete doppia, dove le sue galline vivevano in pace e tranquillità, facendo uova fino alla vecchiaia.

La volpe naturalmente mise gli occhi addosso a quelle galline per sfamare i suoi piccoli e per sfamarsi. Fece molti sopralluoghi, studiò e ristudiò il recinto, prese le precauzioni necessarie, finché non trovò la vulnerabilità del pollaio ed una notte poté entrare.

Aveva raspato tanto sotto la rete, era entrata in mezzo alle galline che dormivano, ne aveva ammazzate cinque ed una alla volta attraversoUn grande e prolungato coccodeare salutò la proposta della volpe, che si mise subito a lavoro per preparare una larga buca nella rete. Da lì nottetempo tutte le galline si presero la libertà e la possibilità di prolungare la loro vita con l’aiuto di una volpe generosa. quel buco se le era portate via. Giunta vicino alla sua tana, aveva scavato una buca e ne aveva sotterrate quattro. Uno era per cena, subito.

Il mattino dopo il contadino alla conta si accorse delle assenze e dal buco capì pure chi era il colpevole dell’ammanco. Quindi richiuse il buco, prese maggiori precauzioni e aspettò i giorni seguenti sicuro di essersi garantito dai furti della volpe.

Ma non fu così. Dopo dieci giorni mancarono Un grande e prolungato coccodeare salutò la proposta della volpe, che si mise subito a lavoro per preparare una larga buca nella rete. Da lì nottetempo tutte le galline si presero la libertà e la possibilità di prolungare la loro vita con l’aiuto di una volpe generosa.altre cinque galline all’appello.

Questa volta la volpe, scalando la rete, era riuscita ancora a portare il mangiare ai suoi volpacchiotti nascondendolo col solito sistema.

A questo punto il contadino perse le staffe: “Dieci galline in quindici giorni. Porca miseria! Di questo passo presto il pollaio sarà vuoto”, calcolò. Così decise di tendere un tranello drastico alla bestiaccia. Avrebbe dormito nel pollaio con le galline in attesa della sgradita visita della volpe.

Come era nell’ordine delle cose, non dovette attendere molto, perché questa si presentasse di nuovo ad eseguire la sua rapina.

Quando la sentì dentro, il contadino chiuse la porta del pollaio, poi con una bastonata la tramortì e la prese per interrogarla:

– Brutta bestia puzzolente e ladra, ora ti ho preso e pagherai i tuoi furti. Dunque che ne hai fatto delle mie galline?-.

– Sono servite a sfamare la mia famiglia. Ma, ti prego, non mi ammazzare, ci metteremo d’accordo, ho voglia di trovare un accordo con te -.

– Dieci galline! Ma perché, quanti siete a casa e dove le hai messe?-

– Veramente siamo tanti, ma non le abbiamo mangiate tutte insieme, le ho nascoste per i giorni di carestia -.

– Ah, sì?! Allora io non ti ammazzo, ma fammi vedere se è vero-.

La volpe accompagnò il contadino al suo nascondiglio e scoprì la fossa dove stavano le galline.

Il contadino soddisfatto, riprese:

– Bene. Sì, la vita te la salvo, ma a queste condizioni: io riporterò le galline non ancora mangiate nel pollaio; restituirò la vita a tutte e tu farai la guardia al pollaio, a tutte, senza toccarne nemmeno una. Al mangiare per te e per le galline ci penso io. D’accordo?-.

– Veramente io avrei qualcosa da obiettare, ma tu sei più forte e la mia condizione di ladra mi obbliga ad accettare, ad obbedire…-.

Il contadino legò la volpe ad un lungo guinzaglio dentro il pollaio e la governò insieme alle galline a base di verdure, semi di biada, granturco. Nei primi tempi quella dieta faceva male alla volpe, che veniva straziata da forti dolori di pancia, ma in seguito piano piano si abituò. Vigilò e salvaguardò il pollaio da tutti i pericoli e insidie. Anzi prese confidenza e poi anche amicizia con le galline, che le servivano pure per scambiare quattro chiacchiere e per non tediare troppo la sua lunga giornata, monotona con quella stretta al collo.

La fiducia vicendevole tra galline e volpe crebbe fino a raccontarsi i loro segreti e la loro vita.

Passarono i giorni, forse anche qualche anno, dato che lì non c’era un calendario. Ed il tempo più che con i giorni si misurava con le stagioni.

Un giorno il contadino, quasi mosso a pietà della sua prigioniera, le confidò:

– Presto la tua reclusione sarà finita. Cara signora ladra, ti farò la grazia, perché sei stata di parola. Sei divenuta vegetariana e non sei più un pericolo per le galline e per me. Tornerai dalla tua famiglia ad insegnare le nuove buone maniere per restare amici ed in pace. Poi ormai i miei polli sono vecchi e ho deciso di rinnovare tutto. Li venderò al macello. Ci faranno il brodo concentrato. Io comprerò altrettanti pulcini per ringiovanire il gallinaio -.

– Grazie, grazie! Hai proprio un animo nobile, padrone. Prima mi hai salvato la vita, ora mi ridai la liberà. Grazie ancora-.

Ma la volpe non condivise affatto i progetti del contadino. “Come, quelle che ho salvato io da morte certa, le ammazza lui? Questo non va bene. Il contadino è falso e scorretto. Mi vendicherò”, meditò dentro di sé e comunicò il suo piano alle galline:

– Care galline, il vostro padrone ha visto che siete vecchie. Vi siete spremute come limoni per fare uova. Non siete utili per lui e poco appetibili per tutti. Ora fate poche uova e dunque ha deciso di vendervi al macello per ricavarne brodo da cucina per gli umani. Io non sono d’accordo e penso non lo sarete nemmeno voi. Quando io mangiavo qualcuna di voi per sfamarmi, mi ha legnato e condannato a cambiar vita in prigione, oggi egli vuol far peggio di me? No, se siete d’accordo, stanotte vi libererò io da questo recinto inviolabile e andrete a morire di vecchiaia fuori dei terreni del padrone, magari nel mio regno, dove e quando sarà. Siete d’accordo?-.

Un grande e prolungato coccodeare salutò la proposta della volpe, che si mise subito a lavoro per preparare una larga buca nella rete. Da lì nottetempo tutte le galline si presero la libertà e la possibilità di prolungare la loro vita con l’aiuto di una volpe generosa.

23 – La volpe e le galline

22 – Le gattine sole

Augusto amava gli animali, tutti gli animali. Teneva cinque pecore, un maiale, due gatti, alcuni conigli, galline, gallo e pulcini, due tacchini. Gli animali stavano vicini tra di loro, un piccolo condominio, quasi convivevano, ma ciascuna “famiglia” non si allontanava dal posto assegnato intorno casa. All’ora del pasto tutti sapevano ed prevenivano i movimenti del padrone; ognuno gli si faceva incontro nel luogo dove sarebbe stato governato. Ogni animale faceva il suo verso caratteristico che poteva essere una richiesta, un ringraziamento. Ogni animale aveva il suo carattere, la sua personalità; ognuno veniva chiamato per nome. Ciascuno doveva essere trattato in modo diverso. Augusto lo sapeva e lo faceva, anzi per ognuno aveva il suo gesto, la sua voce. Per tutti aveva una parola, che poteva essere un’approvazione o un rimprovero, uno scambio di opinioni o un gioco. I più brontoloni, ma pure i più ingordi e sfacciati, erano i tacchini. Loro arrivavano a pizzicare il cibo quando ancora lo stringeva in mano. Una cosa sconveniente, per cui dovevano pure accettare il rimprovero. Comunque con loro doveva trattare prima degli altri…

Simpatico era trovarsi vicino a quegli animali e vedere la loro reazione quando sentivano da lontano la voce del padrone: tutti insieme alzavano la testa in direzione del suono in attesa di vedere se si avvicinava. Augusto a volte si portava nell’aia per riposarsi, per distrarsi dalle solite cose in orari diversi dagli abituali. Lì aveva il suo sedile di sasso all’ombra di una pergola. Spesso portava in mano qualche oggetto da rifinire, da aggiustare. Allora ad uno ad uno tutti gli animali si presentavano per un saluto, o perché volevano vedere che aveva in mano, che intenzioni aveva il padrone: si presentavano, guardavano, esitavano qualche istante e tornavano alle loro faccende, perché dall’oggetto in mano ad Augusto ogni bestiola riusciva a capire le sue intenzioni.

Ognuno voleva la sua carezza personale, ognuno la sua parola preferita, addirittura il suo discorsetto. Chi lo leccava, chi lo annusava chi gli si strofinava alle gambe. Per tutti c’era il complimento, prima del commiato.

Più umili di tutti erano le galline. Quando vedevano il braccio alzato e la manona aperta del padrone (Augusto era alto e robusto ed aveva grandi mani) si accovacciavano lì dove si trovavano ed aprivano le ali in segno di resa, anzi in attesa di essere prese: “Coòcocò… coòcococò…”. Egli stringeva la mano sulla schiena di quella più vicina e se la portava in braccio; le allisciava la schiena, con due carezze le accomodava le penne e le imitava il verso come per ricambiar le due chiacchiere: la sussurrava il nome, le tastava il gozzo per sentire se era pieno. Poi la rilasciava.

Una vita a parte era quella della gatta. Si chiamava Micetta. Lei era autorizzata ad andare fino alla porta di casa, ad aspettarlo lì. La mattina alle sei, all’ora che Augusto usciva per andare a lavoro, Micetta sull’uscio gli dava il buongiorno con uno strascicato “miao”, mentre riceveva il suo premio. “Micetta, sei già qui? Allora andiamo…”

Una carrareccia in discesa, dopo cinquecento metri in mezzo al bosco, li portava fino al garage vicino al paese e vicino alla Provinciale, dove Augusto teneva la sua “Lambretta”. Saliva sul mezzo, salutava la gatta e andava a lavoro. La gatta riprendeva la via di casa fino alle sei di sera, quando per la stessa carrareccia tornava all’incrocio della Provinciale vicino alla Fonte dell’Acquarella. Lì aspettava il ritorno del padrone, perché per Micetta era un rito ed una gratificazione fare un pezzo di strada in Lambretta accanto a lui.

Augusto arrivava, si fermava davanti a Micetta, la salutava con una moina e la invitava: “Sali!…” Micetta saliva sulla pedana tra i piedi del padrone ed insieme percorrevano i cento metri fino al garage. Lei si contentava di stare vicino al padrone più delle altre bestiole.

Facevano la strada di rientro a casa insieme; tanti passi lui, tanti metri lei.

Micetta era pure molto brava per i topi e sapeva che il padrone era orgoglioso di lei per questa sua abilità. Così, quando ne prendeva uno, prima di dividerlo con i suoi figli, lo portava alla porta di casa del padrone ed aspettava finché questo non usciva. Allora Augusto la accarezzava per ringraziarla, poi: “Vai, portalo a Felicetto…” La gatta con un guizzo addentava il topo quasi fosse vivo ed ubbidiva.

Arrivò il tempo della pensione di Augusto. Ad uno ad uno gli animali lasciarono l’aia senza sostituzione. Partì il maiale, partirono le pecore; poi i tacchini ed i conigli man mano che la sua salute si faceva malferma. La piccola fattoria era alla chiusura. Le galline furono ridotte al minimo, finché un giorno anche Augusto prese una strada sconosciuta a tutti e non tornò indietro. Rimasero le sue gattine, le figlie di Micetta. Anch’esse, però, avevano interiorizzato i sentimenti della madre: conoscevano le strade intorno casa, i passi, la voce di lui. Quel giorno si resero conto che non avrebbero più ricevuto le sue carezze, quando per tutta la giornata, mute, sempre tra i piedi dei visitatori, vegliarono la solita porta fino a notte.

Poi la loro vita riprese allo stesso modo: non dimenticavano la puntualità agli appuntamenti; all’orario stabilito si presentavano alla porta di casa. Mantennero gli stessi luoghi di caccia e di riposo, come se ogni volta il padrone dovesse ripresentarsi con le sue abitudini.

Per chi abitava nella casa di Augusto era un impegno ripetuto volentieri continuare la cura delle gattine.

Oggi nessuno si affaccia più a quella porta, ma le gattine non si danno per vinte. Aspettano per mostrare, a chi si presenterà ad aprire di nuovo, il loro diritto a “ereditare” quella casa. Perciò rimangono lì, sull’uscio, e non chiamano più. Piangono sommesse, ma vogliono vedere in faccia il prossimo che verrà ad aprire.

22 – Le gattine sole

21 – Gli animali vicino al lago

Il 22 aprile dell’anno appena passato tutti gli animali della foresta si svegliarono al far del giorno, come accadeva da sempre. L’aria era fresca, una leggera brezza sfiorava la superficie del laghetto, la guazza bagnava l’erba e le foglie basse delle piante; tutto serviva alle bestie delle diverse specie a rinfrescarsi, a ridarsi la spinta per il nuovo giorno che era loro davanti.

Sbrigate le faccende “personali”, c’era da rispondere alla voce dello stomaco, c’era da mettere a posto l’esigenza della fame. Fare colazione. La volpe al limite tra bosco e prateria puntò la lepre e, quando la vide completamente assorta a distruggere un cesto d’erba fresca, l’assaltò alle spalle e se la mangiò. Un leone al bordo della radura puntò una gazzella che brucava le sterpaglie: traccheggiò un po’, calcolò le vie di fuga della preda, le distanze, fece memoria delle possibili velocità sue e dell’altra e, nel momento di maggiore tranquillità della natura intorno, balzò allo scoperto. La gazzella si accorse di essere presa di mira, scattò e si mise a correre a salti scomposti, ma era in ritardo; ormai le distanze tra lei e il leone si accorciavano, finché non ci fu più nulla da fare. Non lottò nemmeno. Un falco posato sulla vetta d’un albero altissimo s’accorse di un topo che ai piedi della stessa pianta rosicava le ghiande cadute a terra. Non ci pensò due volte, raccolse le ali e si fiondò giù come un proiettile, senza un fruscio, silenzioso. Aprì le ali all’ultimo istante prima di sbattere al suolo, per frenare e per avvolgere la preda. Il topo non ebbe una via si scampo. Anche il falco si era sfamato. Un po’ più in là tra il ristagno d’acqua e le fratte del bosco un grande serpente, un boa, vide un agnellino che salterellava da solo, lontano dalla mamma e dal branco delle pecore. Lo puntò e, strisciando sinuosamente e silenziosamente, in un attimo gli fu addosso. Lo avvolse del suo corpo schifoso ed ingombrante, lo strinse e lo soffocò per poi inghiottirlo con comodo, lentamente.

Ai bordi del solito stagno, posto al centro della foresta, una rana verde con la gola gonfia cantava la solita canzone. Anche se gracchiolosa e stonata nel canto, non si era distratta, aveva seguito tutte le mosse dei suoi vicini, aveva visto e compatito la fine delle vittime di quella mattina.

Ella pensò un po’, poi, decisa di fare uno scherzo a tutte quelle bestie carnivore e feroci verso i loro condomini della foresta, lanciò un messaggio per la convocazione di una conferenza. – Graaa!!!, Graaaa!!!!, Graaaaa!!!!! –

Tutti gli animali sentirono, tutti capirono e tutti accorsero intorno alla grande pozza.

Amici, – esordì la rana, quando li vide tutti tesi e sospesi in attesa delle novità – ho assistito al vostro lavoro di prima mattina, alle vostre lotte, alla vostra colazione, insomma. Tutti avete fatto colazione mangiando la bestiolina che avevate più vicino. Non è stato un bello spettacolo, né utile per i nostri fratelli defunti. Inoltre tutti avete mangiato senza lavarvi la bocca, né le unghie, né il cibo. Che schifo! Gla, glaa, glaaa! – E con smorfie della bocca, della gola e della lingua accompagnò il suo gracidare prolungato, così che a tutti gli astanti, o per la mimica dell’oratore o per rimorso di coscienza, parve proprio di essere colpiti da improvvisa nausea.

Mentre per imitazione o per partecipazione al discorso, conati di voltastomaco cominciarono a colpire gli animali accorsi alla conferenza, rei di aver fatto colazione, la rana rincarò la dose, rincalzò i rimproveri, alzò la voce…

Vomitarono tutti, bestie feroci e animali innocui, erbivori e uccellini… Ogni animale, ogni insetto rigurgitato, come per incanto, riprese il suo posto nella vita ed il suo posto nella natura…

Ma da mezzo al gruppo un cerbiatto alzò la zampa:

– Ma che dici?! Io ho mangiato solo quattro ciuffi d’erba condita con un po’ di rugiada. Che devo vomitare? Ho visto, sì, il leone che mi guardava concupiscente, ma l’ho tenuto alla larga. Sono stato attento, io. . . Così dovrebbe fare ognuno di noi, sapendo che c’è sempre qualcuno che ha fame di te!…-.

A questo punto rivolto alla rana si fece coraggio, allungò il collo anche un pellicano:

– Che hai detto? E tu? Ti ho visto io in mezzo all’acqua, ti sei mangiato una mosca e tanti moscerini pure tu. Certamente ti eri lavata le zampe, certamente il cibo era pulito, ma pure i moscerini erano il tuo prossimo. E la tua colazione è durata tutta la mattina. Mentre la mia non è ancora cominciata e ho tanto vuoto nello stomaco…-. E con un lancio del lungo collo le portò il becco sopra la schiena più spalancato di una fornace.

Fermo! Aiutooo…- supplicò la rana. – Devo vomitare anch’io. Glaaà. – E mosche e moscerini ripresero il loro posto sul lago, poi continuò: – Hai ragione. Nessuno è immune da peccato, nemmeno chi vive pulito… nell’acqua -.

Gli animali rimasero tutti in silenzio. Nessuno sapeva più che dire. Ora ognuno guardava con occhi compassionevoli il suo inferiore, ogni inferiore guardava con occhi di pietà, di supplica e di ringraziamento il suo sovrapposto nella scala del potere, ma tutti avevano un gran vuoto nello stomaco, avevano fame. Che fare e che dire?

La situazione d’imbarazzo venutasi a creare indusse il leone, il re, a prendere la parola per riportare serenità nel regno:

– Signori, sarà bello vivere in pace e nel rispetto tra noi. La rana in fondo ha portato in evidenza un problema, la nostra sopravvivenza. Ognuno vive perché c’è il suo prossimo che gli dà vita. Come faremo a campare se il nostro prossimo muore e finisce? Riusciremo, perciò, a cambiare le nostre abitudini e il nostro istinto di natura? Prima che moriamo tutti di fame, prima che ci autodistruggiamo tutti, prego tutti di intervenire nel dibattito con proposte nuove, che democraticamente metteremo ai voti -.

Alzò le orecchie l’asino e ragliò: – Fate come me, mangiate tutti l’erba e tanta. Si campa lo stesso!-.

– Ed io? – intervenne il ghepardo. – Io, a parte il fatto che non sono abituato, il mio stomaco non tollera l’erba. Se non mangio te, morirò!-.

– Io dico che deve farsi gli affari suoi, la rana, che deve imparare a contare fino a cento, prima di aprire quella boccaccia e dargli fiato –, interruppe il coccodrillo.

– Io metterei ai voti che tutti siano richiamati all’attenzione per la salvaguardia della loro vita, al rispetto della vita altrui – sentenziò la volpe – e tutti mangino quel che gli va, secondo quanto suggerisce la natura…-

– Insomma, che tutto resti come prima! – fece per concludere la tigre.

– Questa non è una proposta, la conoscevamo già, – intervenne il re. – Vogliamo qualcuno che suggerisca qualcosa di nuovo. C’è o non c’è qualcuno?… -.

Passarono lunghi istanti di attesa e nessuno intervenne. Allora il Leone riprese la parola:

– Visto che l’unica proposta (diciamo, proposta!) pervenuta a questa presidenza è quella che tutto rimanga come prima, che ciascuno si tolga la fame secondo come lo spinge la natura, a riprova che siamo d’accordo, mettiamola ai voti. Chi approva alzi la mano! –

A questo punto tutti gli animali, insetti e uccelli, si fecero piccoli piccoli, fino a nascondere la mano con tutto il corpo annesso.

– Bene! – disse il leone, – nessuno ha il coraggio di approvare, nemmeno la tigre e la volpe. Allora mettiamo ai voti chi è contrario a che tutto continui come prima. Fratelli, alzate la mano! -. Si ripeté la situazione precedente. Nessuno intervenne.

– Signori, fratelli. Visto che il problema è di impossibile soluzione, dobbiamo dire che tutto rimarrà com’era avanti la chiamata della nostra amica ranocchia. Si raccomanda a tutti la massima attenzione per non cadere nelle attenzioni del vicino affamato. Auguriamo buon appetito a chi ha fame e lunga vita agli altri… -.

L’assemblea fu sciolta. Ognuno riprese il suo posto nella vita, ma anche… nella morte.

– Tutto come prima. Tutto come prima. Tutto come prima… – si sentì ripetere all’infinito. – L’ha detto il re. L’ha detto il re. L’ha detto il re… -, continuarono le voci.

Subito si vide la volpe in agguato, con sguardo scrutatore dell’orizzonte all’infinito. Ricercava la sua lepre: – Dov’è? Ormai lei conosce già i passaggi dalla bocca allo stomaco, dalla morte alla digestione. Soffrirà meno a rifare il solito cammino… -.

Peccato che era ancora troppo vicino alla riva del laghetto, dove era rimasto sornione il coccodrillo. La serie della colazione del mattino appena passato, degli affamati e delle loro vittime s’interruppe… per rodarne un’altra.https://www.google.it/?gfe_rd=cr&ei=YZ_lV7ufFajb8Af67qbwAg

21 – Gli animali vicino al lago

20 – Il serpente ed il rospo

In un fosso di campagna tra l’umido dell’erba ed una pozzanghera viveva quasi tranquillo padrone assoluto, un rospo grigio e grande. Viveva muovendosi lentamente e pigramente riuscendo a pescare gli insetti di quell’ambiente malsano. Anche un serpente striato verde e giallo aveva segnato il territorio del suo possesso in quel luogo. Anch’egli circolava in continuazione vigilando su chi entrava e chi faceva uso di quella porzione di fresco ambiente senza averne diritto. Una volta finita l’ispezione, si cercava un angolo soleggiato e vi rimaneva fermo mimetizzato tra erba e fiori acquatici per ore ed ore. Poche volte il rospo ed il serpente si erano incontrati durante i loro spostamenti, ma ciascuno aveva fatto finta di non accorgersi dell’altro. Né un saluto, né un gesto di rispetto, ma semplicemente si ignoravano.

Fu un caso che, senza accorgersene, si ritrovarono vicini al sole, in uno stato di rilassatezza e di relativa disattenzione. Nessuno s’era accorto dell’altro. Passarono alcuni minuti e la mobile testa del serpente puntò gli occhi sul rospo. Accorgersi del vicino e rendersi conto della favorevole posizione per un buon pasto fu tutt’uno e… zac, con una fiondata precisa afferrò per una zampa il rospo.

Il rospo si accorse del tradimento e si rese conto che la sua vita aveva i minuti contati. Non disse nulla, ma pensò a come uscire da quella situazione, magari restituendo lo sgradito trattamento.

Frattanto la serpe aveva iniziato a succhiare il rospo ed a sforzare fino ad oltre le sue misure le fauci, allargando e sformando le mascelle. Il rospo, sempre zitto, piano piano stava inesorabilmente entrando nell’apparato digerente del suo “amico”. La cosa non gli era affatto gradita, ma era cosciente fino all’ultimo, quando il serpe richiuse la bocca dopo che egli era ormai tutto dentro.

A questo punto il rospo fece un ultimo respiro ed aspettò che le contrazioni lo spingessero sempre più in profondità. Quando si rese conto che la serpe si era fermato per iniziare in pace la sua digestione, il rospo concentrò le sue forze ed iniziò a gonfiarsi spargendo dalla sua pelle degli acidi fortemente corrosivi. La pelle della serpe già abbastanza tesa per contenere quel boccone intero, dovette continuare ad allentarsi. Naturalmente la sua elasticità finì prima che il rospo cessasse di crescere. La serpe cominciò a divincolarsi dal dolore. Si mosse di qua e di là, cercò aiuto dagli amici, dai vicini, da chi poteva. Raccontava di aver ingoiato un rospo e che gli era risultato indigesto e che lo stomaco gli bruciava, anzi gli schiantava.

Non trovò nessuno che avesse una ricetta da consigliarli: anzi, c’era chi gli prevedeva una prossima brutta fine; che appena fosse crepato sarebbe stato preda del rospo e di tutti quelli a cui aveva attentato la vita fino allora, formiche, mosche, topi.

Crepò senza tanti complimenti né rimpianti da parte di nessuno, ma non morì. A questo punto, vedendolo impotente, si fecero avanti in tanti a rinfacciargli il dolore che aveva procurato lui campando a spese della vita altrui: a chi aveva mangiato un fratello, a chi i genitori, a chi gli amici e conoscenti. Il rospo sempre placido e lento riprese fiato, poi afferrò la serpe per la testa ed iniziò ad ingoiare quel lungo boccone. Impiegò molti minuti, ma per lui questo non era un problema, aveva tempo, pazienza e pelle elastica.

20 – Il serpente ed il rospo

19 – Arturo e Leda

Arturo e Leda vivevano in un recinto di rete verde, non lontano dal podere della padrona a Casa Dondolini. Avevano un gran prato d’erba a disposizione, oltre l’aia del podere, ed avevano tanti amici vicino: un’asina, galline e galli, tacchine, faraone maschi e femmine, due maiali ed un piccolo branco di pecore con i figli piccoli. Le loro giornate trascorrevano liete. Con il sole o con la pioggia usavano quello spazio passeggiando o correndo ad ali spiegate o semplicemente brucando. Erano una coppia veramente felice.

Quando qualche amico della famiglia si avvicinava alla rete, Arturo gli andava incontro…

– Arturo, come va? – lo chiamavano i conoscenti e gli amici.

Arturo, ovunque si trovasse, partiva con gran gracidio verso la rete, in direzione del richiamo e rispondeva a modo suo: spesso brontolava chiaramente irato per essere stato distratto da curiosità inutile. Si capiva dal tono. A volte ringraziava, se una mano gli allungava qualcosa da stringere nel becco. Poi tornava indietro dalla moglie e, seguitando a gracidare, si esibiva in contorte evoluzioni fino a richiamarne l’attenzione.

Vieni a vedere chi è venuto a trovarci”, “Vieni a salutare gli amici”. Oppure “Vieni con me a difendere la nostra casa. C’è gente che non so chi sia!” – pareva le volesse dire.

Certamente la voce di Arturo era unica, sgraziata e per l’interlocutore non sempre era facile capire di quale umore fosse espressione.

Arturo era goffo quando camminava, era elegante quando corteggiava. Leda era orgogliosa di lui e si faceva coprire di attenzioni. Mai davanti, rimaneva sempre un passo indietro, come si conviene ad una signora. Le effusioni di Arturo e Leda erano aggraziate, fatte di inchini, di danze come minuetti, incrociando e avvolgendo i loro colli lunghi e affusolati.

Una mattina la padrona andò a governare le oche, ma Arturo e Leda non si mossero, non gracidarono. Leda era per terra raccolta come un batuffolo bianco, all’ombra di un cespuglio di uva spina. Arturo, accovacciato vicino, con il suo collo allungato sopra, lentamente le accarezzava e le muoveva le piume, quasi con dolcezza.

– Strano! – pensò la padrona – Zitte così non sono mai state. – e si avvicinò.

Leda così raccolta e immobile era morta e Arturo non si staccava da lei. La manteneva calda, quasi a ridarle la vita. La padrona la sollevò tra le braccia e la portò via. Arturo la seguì fino al cancello, senza un gracido, senza un lamento. Poi rimase lì per tutto il giorno ed i giorni seguenti: non un gracido, non un lamento; non rispondeva ai richiami degli amici, non seguiva la padrona, quando entrava nel recinto. Non mangiava.

– Oddio, ora muore anche lui, si lascia morire così. Che amore per la compagna.– Pensò la padrona.

Passarono pochi giorni e alla padrona venne un’idea. Andò al podere vicino e comprò un’altra oca bianca, un’altra moglie per Arturo. Poi entrò nel prato verde e la liberò vicino a lui. Questi come per miracolo riprese vita, la sua vita libera nel prato. Ricoprì di attenzioni e delle sue elegantissime effusioni la nuova Leda. Gracidò di nuovo, forte come sempre, a tutti gli amici che si avvicinavano alla rete e chiamavano: “Arturo, come va? Arturooo!”

19 – Arturo e Leda

18 – La mosca, il ragno e la lucertola

Sul cancello di una villa il padrone aveva scolpito un ragno ed una mosca ben definiti come un’opera d’arte; il ragno con la sua ragnatela, la mosca ad ali stese, pronta a volare…

Ora vi racconto il perché.

Un ragno viveva abitualmente su quel cancello. Ma altrettanto abitualmente aveva necessità di mangiare e per sfamarsi doveva stendere la sua tela tra una stecca di ferro ed un’altra, dove si sarebbero intricate le prede. E queste erano costituite dagli insetti che ignari passavano da quelle parti, in quel cancello. Per questo motivo un giorno iniziò il lavoro di stesura. Con la bocca prese dal suo ventre un punto di colla, l’appiccicò ad una stecca nel mezzo del cancello e con salti precisi da un punto ad un altro cominciò a girare al tondo, in su e in giù, in qua e là, tracciando con il filo elastico e trasparente che gli usciva dalla pancia un raggio sempre più largo di un disegno simmetrico e preciso. Quando il lavoro fu sufficientemente spazioso, chiuse il progetto staccandosi il filo di dosso e si fermò ad ammirarlo. Aveva fabbricato una bella ragnatela. Perfetta.

Pure una mosca frequentava quel cancello. Era velocissima nelle sue escursioni. Volava qua e là, su e giù. Passava avanti e indietro attraverso le sbarre di ferro, vi si posava, vi prendeva il sole. Si sentiva padrona di un pezzo di quel quadrato e dello spazio d’intorno. Il cancello era una cosa forte e sicura, fatta con bell’armonia dal signor padrone.

In realtà padrone per metà ne era divenuto il ragno che, stendendovi la sua ragnatela, in quella parte cacciava indisturbato altri insetti.

La caccia avveniva così. Quegli insetti, che la toccavano o appena la sfioravano, vi si impigliavano. Allora arrivava il ragno che prima li faceva prigionieri, poi li conservava avvolgendoli in un bozzolo di tela e condannandoli a morire, infine, con comodo, li mangiava, senza chiedere il benestare a nessuno, tanto meno alla mosca o al signor padrone.

La mosca a veder quel tranello e l’organizzazione di quella caccia un giorno affrontò il regno per dirgliene quattro:

– Amico mio, forse tutta questa attrezzatura l’hai organizzata per me? Se pensi di fregarmi, ti sbagli di grosso. Ho visto il tuo imbroglio e cercherò di non aiutarti…

– Veramente non è per te; tu sei la mia vicina di casa. Penso che siamo amici, anche se la fame a volte acceca la vista da non distinguere nemmeno le parentele. Quindi fai come vuoi, ma stai attenta…

– Va bene! Ti ringrazio, ma non proprio di cuore. Anzi, se posso, lo farò sapere al signor padrone ed ai miei amici, perché mettere una trappola in un posto così bello è un tradimento dell’ingegno e dell’amicizia.

– Come vuoi – rispose minaccioso il regno –. Così da oggi non rispetterò più nemmeno te -.

La mosca allora raccolse in sé tutta l’ira che aveva dentro e cominciò a volare da qua e là attraversando la tela a forte velocità, sì che quella non riuscisse a trattenerla, ma si strappasse lasciando ad ogni passaggio un buco aperto. Il ragno ad ogni colpo sulla tela correva per vedere se c’era una preda o un buco. Poiché mai era preda, si affaticava soltanto per tappare le falle.

Una lucertola, che stava prendendo il sole ai piedi dello stesso cancello e aveva sentito la discussione tra i due, si accorse pure del ronzio frenetico della mosca e dell’agitazione del ragno che impazzava da una parte all’altra della tela, dove la vedeva tremare senza che vi fosse manco una preda, ma strappi da rattoppare.

Dopo qualche tempo di questo gioco a dispetto, la mosca era sfinita, priva di forze e si impigliò nella tela. Pure il ragno, però, era sfinito dalle corse. Tutti e due stavano morendo di crepacuore. La lucertola previde come si stavano mettendo le cose e concluse: “Oggi va bene per me”.

Quando furono fermi ambedue, mosca e ragno, la lucertola salì e se li mangiò. Ma la ragnatela di cui erano intricati la mosca e il ragno era composta di materia urticante e indigesta. Un gran mal di pancia colpì la lucertola che cominciò a rotolarsi, a sbattere la coda per terra e dovunque.

Il signor padrone del cancello amava gli animali, gli insetti e la natura tanto che mai avrebbe fatto torto ad alcuno. Allorché, passando di lì, si accorse di quell’agitarsi, di quei movimenti insoliti, si avvicinò in soccorso della lucertola. La prese sulla sua mano, la guardò, ma non capì molto, se non che aveva la pancia piena.

– Perché ti agiti tanto, che hai? – le chiese.

– Sto morendo per colpa di due stolti, – rispose la lucertola.

– Che vuoi dire, spiegati meglio e in fretta, se mai posso far qualcosa per te.

– Devi sapere che sul tuo cancello avevano preso posto un ragno ed una mosca. Anzi si muovevano come se fossero loro i padroni e si litigavano per questo. Io… – e spiegò i fatti cui aveva assistito e come essa aveva approfittato di quella stupida arroganza, rimanendo colpita da crampi allo stomaco per colpa di quella tela forse composta da sostanze paralizzanti.

Il padrone ebbe pena per la storia del ragno e della mosca, ma volle anche premiare la sincerità della lucertola, aiutandola a vomitare gli insetti ingoiati. Poi immortalò la storia dei due sciagurati, dando loro posto nel suo cancello per cui nella vita tanto si erano litigati.

18 – La mosca, il ragno e la lucertola

17 – Il canto dell’usignolo

Per abituale dimora insieme alla sua famiglia un usignolo aveva scelto un bellissimo albero di faggio che cresceva in mezzo ad un rigoglioso e verde bosco. Viaggiava, con voli rapidi e furtivi lì intorno e qui ritornava. Ma soprattutto nei momenti di riposo e di tempo libero instaurava i suoi concerti vocali che incantavano tutta la natura del vicinato. Colleghi, uomini, animali, insetti e bosco si fermavano rapiti dal suo canto, dal suo gorgheggio. Sì, perché la sua voce così bene modulata, alta e limpida era un piacere ed una compagnia per tutti i vicini ed i lontani. Infatti essa si udiva fin dai punti più remoti della valle ed era unica. Né l’usignolo si risparmiava.

Tutti erano contenti di questa armoniosa compagnia, perché nessuno sapeva il vero scopo di questa esibizione e di tanto impegno a sì ben figurare. Lo scopo incoffessato e traditore dell’usignolo, infatti, non era nobile né nobilitato dal bel canto, ma più semplicemente dalla fame, dalla necessità di soddisfare alle sue esigenze fisiche. Accadeva infatti che la curiosità del bel canto, piano piano, subdolamente incitava tutti ad avvicinarsi alla fonte di provenienza, soprattutto gli insetti. Ed era su questi che l’usignolo puntava le sue bramosie per saziare il vuoto dello stomaco causato dai lunghi gorgheggi. Così quando gli insetti arrivati intorno al canterino avevano raggiunto un bel numero, questo si fermava d’improvviso e iniziava il pasto, senza che gli estasiati nemmeno si rendessero conto dell’inganno.

Un giorno, però, forse perché qualcuno aveva parlato o perché aveva capito il tranello, un grillo giocò d’astuzia. Al termine dell’esibizione dell’usignolo, nascosto al riparo sotto una grande foglia di zucca, gridò, anzi stridulò con la sua voce gracchiante: – Bene, bravo, bis! Ci hai incantato, ci hai convinto, siamo tutti con te. Viva l’usignolo, la voce della foresta! Il nostro più bello e insigne rappresentante: nessuno più di lui è degno di far concerti. Bisse, bis! -. Dalla foresta si udì un fruscio come un grande e prolungato applauso di approvazione.

L’usignolo a questo pubblico elogio fece buon viso e, toccato in pieno nel suo orgoglio, riprese i gorgheggi dal punto in cui li aveva interrotti. Così facendo, però, l’ora del pasto per lui si allontanava… La fame è una brutta cosa. Dalla sua gola il canto cominciò ad uscire meno bello, poi meno definito, poi sempre più stonato. Il povero usignolo affamato non solo non poteva più cantare, ma non ci vedeva più. Stremato, confessò: – Dalla fatica sto morendo di fame. Però non mi sarei trovato in questa situazione se tutto il vicinato con la richiesta del bis non avesse interrotto la mia abitudine, non avesse stimolato la mia vanità.

– Perché, qual era il tuo piano? – L’interruppe il grillo sempre al riparo sotto la zucca, facendo finta di non saper nulla.

– Dopo la mia brava esibizione, mi sarei mangiato qualche insetto più curioso per ascoltarmi e tutto sarebbe andato liscio fino a domani. Ma ora?… Io morirò e voi sarete meno lieti -.

Gli insetti, la foresta, la natura, tutti coloro che erano soliti sentirsi rallegrati la giornata dall’usignolo insieme esclamarono: – Oh, noooo!…-

– Zitti tutti! – Disse il grillo – Penso di avere la soluzione. Se preghiamo il nostro Spirito protettore ed Egli ci fa la grazia, io penso che l’usignolo possa vivere dei semi delle erbe, che noi gli possiamo fornite in gran quantità, purché continui a tenerci allegri e spensierati col suo canto.

– Sìììì, evviva il grillo, evviva l’usignolo. Grande Spirito, salvaci tutti, tutti insieme! -.

E nella foresta echeggiò sommesso un brusio lungo e raccolto, come una preghiera. L’usignolo sentì mutare in sé il desiderio della fame: non aspirava più a beccare sugli insetti che vedeva, ma andava in cerca di piccoli semi di erbe, che, come le formiche, tutte quelle bestioline del bosco gli porgevano a portata di… becco. E ne trovava tanti, e sempre di più, perché da quel giorno ogni insetto che partecipava o solamente udiva il suo concerto si sentiva in dovere di portare all’usignolo l’obolo del semino che trovava per la via: panìco, grano, veccia, gioglio, biade… Un compenso a tanta fatica.

E da quel dì l’usignolo non si preoccupò affatto del suo mangiare, ma della sua voce, perché, dopo l’esibizione canora, quando aveva fame, poteva scegliere il pasto del giorno, trovando sempre vicino alla sua casa tanta abbondanza fornita dagli insetti suoi amici.

17 – Il canto dell’usignolo

16 – Il fuco e l’ape regina

 

In ogni arnia regna una regina.

La regina dispone di una famiglia numerosissima di api che lavorano in continuazione, ciascuna addetta ad un compito preciso come raccogliere il polline e produrre miele, come imboccare lei di pappa reale, come produrre vento per rinfrescare l’alveare, come montar la guardia per difendere la casa da ladri e predatori. La regina non ha altri impegni se non deporre in continuazione uova nelle celle dei favi che le api curano più dolcemente ed attentamente possibile, come se le covassero.

A seconda che a quelle celle diano forma più grossa o più piccola, più tonda o più alta da esse nasce un’altra operaia, o un’altra regina o un fuco.

Ecco, il fuco sarebbe il maschio della casa, il marito della regina, ma di quella regina che le operaie fanno nascere ad ogni primavera per rinnovare la famiglia e per crearne una nuova. Perciò, quando si verificano tutte queste cose insieme – in vista di quelle nascite a primavera -, la regina nuova raduna i fuchi della casa, tutti fidanzati, aspiranti mariti e li invita ad un viaggio di nozze in volo, durante il quale ad uno ad uno tutti cadranno morti, meno uno soltanto, l’ultimo, il più forte, che finalmente la sposerà. Dunque la giovane regina si sposerà con l’ultimo, poi subito dopo rimarrà vedova e senza pianti né rimpianti tornerà indietro. Da parte sua il problema da risolvere sta nel fatto di saper misurare le forze di questo marito a confronto con le sue. L’ultimo ce la farà a salvarsi, a resistere? Riuscirà a vederlo prima che cada? L’amerà davvero?

Ma quella volta accadde proprio così, non tutto il volo filò liscio. In una bellissima giornata di primavera la giovane regina radunò i suoi promessi sposi, gli aspiranti alla sua ala, li passò in rassegna chiamandoli ciascuno per nome: c’erano Fiorello, Morello ed Osello, c’erano Giulivo, Reuccio e Bionico, c’erano Solare, Veloce, Dolce e pure tanti altri, bei rappresentanti della casa, che disciplinatamente si misero in fila in attesa dell’ordine di partenza. La regina spiccò il volo e dopo pochi metri gli aspiranti mariti-principi cominciarono a cascare sfiniti, morti stecchiti. La regina, però, consapevole di aver dietro la meglio rappresentanza della specie, si voltò indietro per vedere in quanti la stavano seguendo: vide che i pretendenti erano ridotti a pochi. Così continuò a volare voltandosi più spesso e ad uno ad uno vide cadere anche i promessi a lei più simpatici: Fiorello, Veloce, Morello e gli altri. Quando si accorse che la seguiva solo Reuccio, rallentò la corsa quasi a collaborare per essere raggiunta. Purtroppo la sua decisione fu tardiva, perché nel frattempo Reuccio cadde esanime.

  1. Oddio, ed ora come faccio? – pensò tra sé. Subito si disperò in cuor suo, ma poi ricordò che una regina mai si lascia prendere dalla disperazione, dallo sconforto. Volò vicino al promesso sposo, lo guardò bene, lo toccò e si accorse che non era morto, ma soltanto svenuto e privo di forze. Allora con forti richiami e ronzii di ali chiamò in soccorso tutte le sue operaie rimaste a casa. Esse giunsero prontamente, la regina spiegò l’accaduto e ordinò:

– Tornate a casa, prendete tutta la pappa che abbiamo in riserva ed imboccatelo, cambiategli l’aria d’intorno, fategli vento finché non torna a respirare e riprendere forza. –

Le operaie obbedirono senza riserve, ognuna eseguì il suo compito con impegno e in breve il fuco Reuccio si ristabilì. Si accorse di essere stato coccolato con amore da tutte le compagne e di essere l’unico fortunato pretendente all’ala della regina.

Lasciateci soli – disse allora questa – Brave e grazie del vostro aiuto; tornate a casa, dove presto vi raggiungeremo anche noi -.

I due rimasero lì all’ombra di un gran fiore dolcemente profumato. Si raccontarono tante cose. Furono felici insieme per qualche tempo. Fu un atto d’amore infinito, parve loro. Reuccio si disse e si sentì fortunato. Che altro di più poteva aspettarsi dalla vita, che sapeva breve? Alla regina confidò i suoi sentimenti, ma anche le sue paure. Prima dell’imbrunire decisero di rientrare a casa.

– No, – disse Reuccio – non mutiamo la storia ed i costumi. Un fuco re non è mai esistito in un alveare. Io resto al mio destino, tu vai e adempi al dovere di una regina delle api -.

Si lasciarono dal lungo abbraccio e la regina riprese a volare con grande allegria, ma Reuccio rimase lì, non riuscì più nemmeno a sollevarsi in volo.

Stavolta il suo cuore non aveva retto allo sforzo ed alla contentezza messi insieme. La discendenza della nuova famiglia era comunque assicurata, ma pure la disposizione che vuole le giovani regine delle api vedove fin dal loro viaggio di nozze.

16 – Il fuco e l’ape regina

15 – Il fiume e il mare

Un’altissima montagna aveva una pancia molto sporgente. Un giorno da un piccolo foro a metà di questa pancia cominciò a uscire uno scroscio d’acqua abbondante e rumoroso. Lo scroscio prese a scendere verso i piedi del monte e man mano che scendeva, si faceva più grande e impetuoso. Sbatteva a destra, rimbalzava a sinistra. Scavava, trascinava con sé, rotolava sassi, tronchi d’albero e qualunque altra cosa non resistesse al suo passaggio… In fondo alla discesa era divenuto un fiume in piena.

Solo un masso, urtandoci contro, gli resisteva. Il fiume gli sbatteva addosso e si frantumava in miriadi di goccioline, in fiotti, in onde e riccioli d’acqua schiumata. Tutta quell’acqua fresca, agitata, sbattuta e frantumata, in parte proseguiva la corsa verso la valle, in parte vaporizzata si sollevava sopra un alone di nebbia che bagnava e dissetava la natura d’intorno: fronde, foglie, steli d’erba, animali… Tra il fragore della piena e il masso si ripeteva un dialogo infinito:

– Flap, splash, flap, flaflàp… Di dove vieni e dove vai con tanto impeto e tanta fretta, o acqua gelata? – Domandava il masso.

-Flap flap. La montagna lassù mi fece nascere, mi dette la vita e mi avviò al mare, ma non mi indicò una strada precisa, così scendo con molta confusione in testa. Sbatto qua e là, corro e rallento, cercando il passaggio più facile. Che ti ho fatto male? Perché non vieni con me?

– No, io resto qui. Io sono pesantissimo e sono piantato qui, comandato a reggere la pancia molle della madre tua, la montagna-

– Blu, blabloblublu… Devo andare, ho fretta. Mi spingono. Ti devo lasciare, ciao!

E il fiume riprese la sua corsa verso la valle.

– Blublabloblublublu…- Correva, rotolava e man mano si ingrossava. A volte guardava indietro in uno sguardo rapido, ma la fretta lo portava a correre di nuovo.

-Oh, belli!… e voi chi siete? – Fece, ammirato il fiume, incontrando a metà della costa dei pesciolini scuri.

-Siamo trote, trote figlie della mamma che viene dietro a noi.

-Ah, adesso vedo anche la mamma. Bella, tutta picchiettata nella pancia bianca!

– Veramente noi siamo più veloci, anzi corriamo verso le buche sotto i sassi e i nascondigli, da una all’altra e la mamma si stanca un po’ a venirci dietro. Ma non ci lascia sole…

-Brave, nascondetevi, altrimenti vi porto via con me. Ciao. Blublublù, blublù, bla…

Il fiume continuò la corsa. Incontrò tanti altri pesci, più grossi e più piccoli, più belli o meno vistosi, tante altre vite. Ognuno seguiva una direzione, una meta diversa e personale.

Ma perché tanta fretta? La valle era lì. Ormai era arrivato. Conveniva essere calmi e placidi.

– Blublablaaaa… – e cominciò a proseguire su di un letto grandissimo, pianeggiante, livellato. Silenzioso. Ad un tratto sulla schiena si ritrovò un recipiente, come una vasca, grande e liscio che scivolava in senso contrario alla sua corsa. Quella vasca conteneva al suo interno altri quattro esseri viventi; di questi chi faceva una cosa chi un’altra: ognuno si muoveva per conto proprio, con incarichi indipendenti dal vicino. Il fiume non vedeva o non capiva di che si trattasse, però era contento della sua forza. Anzi si meravigliava di come egli seguisse una direzione e gli altri un’altra, agendo indifferenti ed indipendenti dalla sua volontà. Ma non si fermò. Né ebbe modo di togliersi la curiosità. Seguitò ammirando una distesa a perdita d’occhio. Si ricordò delle istruzioni avute dalla Montagna, sua madre: – Ecco, questo è il mio letto. Qui mi posso riposare. Qui posso stare tranquillo, senza fretta, senza dolore -. E si mise ad accarezzare ciottoli, a giocare con i giunchi delle sponde, che ora si piegavano, ora si rialzavano schizzando gocce d’acqua da ogni lato. Incontrò animali più grandi e più piccoli, tanto diversi tra loro a dissetarsi al suo passaggio, in piedi sulla sua sponda. Il fiume si fermò a parlare con uno nero, che insieme ad un gruppo di amici, grande e diverso, con lunghissime corna in testa si bagnava le zampe:

-Amico, ti vedo per la prima volta a bere alla mia riva. Sono felice di esserti utile. Chi sei?

-Sono il bue di Maremma. Vengo da te, perché mi porti la freschezza della Montagna tua madre. Di giorno vago con questi amici nei forteti, tra i cespugli qui intorno. Sto bene, però mi sento meglio quando metto i piedi al limite delle tue sponde. Sei bello e ricco d’acqua fresca. È un piacere…

-Sono contento per te. Mia madre ti invita a fine primavera a salire su da lei. È molto lontana, ma ti assicura pascolo e una casa ricca e accogliente di vegetazione per te ed i tuoi amici. –

Il fiume stava riprendendo la sua strada, quando ebbe un attimo di esitazione e aggiunse: – Grande bue, amico mio, tu sei buono e pacifico. Lo so. Ma con me viaggiano tanti altri animali che hanno sempre fame e per saziarsi diventano feroci. Ho incontrato poco fa un coccodrillo. Stai attento… –

Il fiume non fece in tempo a finire l’avvertimento che un’enorme lucertola a bocca aperta guizzò fuori dall’acqua. Il bue, però, alle parole del fiume aveva già raccolto le forze e l’attenzione e, di fronte all’attacco del bestione, puntò saldi i piedi nella riva bagnata, abbassò la testa e con un’incornata forte e decisa rimandò lontano in acqua il coccodrillo.

– …E ti è andata bene. Le mie corna ti potevano infilare come una spada! – Disse a voce alta il bue rivolto al coccodrillo – Pensaci un’altra volta prima di colpire a tradimento. Grazie e arrivederci, fiume, amico mio -. Poi si allontanò verso il bosco a confine della riva.

Il fiume riprese il cammino placido e lento verso la foce. Non era lontana, ma prima di tuffarsi in mare il suo andamento spensierato gli permetteva ammirare ancora il panorama d’intorno. Fece festa a tutti. A chi mandò un saluto, a chi uno schizzo d’acqua, a chi un airone volteggiante e maestoso in volo. Il mare stava lì ad un passo a braccia aperte, anzi immensamente larghe.

Prima che le acque del fiume si mischiassero con quelle del mare, il fiume molto educatamente si presentò:

– Ciao, padre infinito. Sono un fiume che vengo dalla Montagna alle mie spalle. Tu non la vedi, ma è una madre gigante e generosa. Mi ha fatto ricco di virtù. Mi vuole tanto bene, ma sono venuto via per intraprendere la mia vita autonoma, piena di imprevisti belli e non belli.

– Ciao. Benvenuto! Come stai tu? Ti chiedo questo perché arrivano da me tanti tuoi fratelli, fiumi tutti carichi di ogni genere di immondizie. Lavano tutti e tutto, ma nessuno si lava prima entrare in casa mia.

– Certamente avrai ragione, perché anche l’acqua che viaggia con me non è pulita come dovrebbe. Ho incontrato torrenti che mi porgevano la mano e li ho accolti senza obiettare, ma ho incontrato pure scarichi di case, di fabbriche, di stalle con le acque sporche. A volte ho brontolato. Forse con poca convinzione, perché non tutti mi hanno obbedito. Per questo ho visto morire compagni di viaggio, uccelli, pesci, animali. Molti uomini amici mi stanno allontanando. Tu sei il mare, tu sei un padre per ogni vivente. Ti prego, non mi rifiutare la tua accoglienza.

– Vedi, purtroppo hai con te tronchi d’albero, terra, sassi, veleni… Làvati prima di entrare da me, in casa mia, prima di avvelenare gli amici che viaggiano con te, altrimenti sarò costretto ad arenare la tua foce. E ricorda che dopo questa volta non te lo ripeterò –, concluse il mare minaccioso.

Il fiume si radunò in un gran mulinello. Frenò l’andatura. Alzò il gorgoglio, avvisò, minacciò tutti coloro che aveva incontrato nel lungo viaggio, buoni e cattivi, e ripeté l’ordine avuto. Tutti riconobbero giuste le ragioni del mare e furono d’accordo a lavare, a ripulire i loro incontri, i loro scambi di acqua e di cose con il fiume.

La decisione rese più sereni e contenti mare, monti, fiumi, uomini, animali e cose …

15 – Il fiume e il mare